Testo scritto per "L'osservatore in cammino"edito per il Festival pe(n)sa differente 2014
In definitiva non c’è niente di
definito,
l’indefinito conduce al movimento,
porta al cambiamento
definito è il niente
la mente che non sente
la morte quando arrende.
Se mi chiedono se lavoro la risposta è
indefinita, se mi chiedono cosa faccio anche.
È difficile sostenersi quando non si
sta nelle definizioni, lo è ancora di più quando al contrario
dentro e nel corso dei giorni si ha dimestichezza con la forma molle
di sè, ne si conoscono i confini, seppur mutevoli.
So che cos’è per me lavoro, lo
costruisco da anni e da poco ho anche imparato da me stessa dove
voglio mettere le energie, il tempo, in cosa voglio crescere, cosa
voglio imparare, dunque si direbbe che io sia definita, eppure mi
tocca sempre tergiversare davanti alla domande secche e
anti-materiche delle persone. Chiedermi: «Lavori adesso?» è una
domanda fuori dal tempo, non ha sostanza, è una domanda che aleggia
su un livello fumoso, senza corpo. Allora la risposta diventa una
serie di proposizioni, di specificazioni, si apre la vasta gamma
delle possibili risposte. A volte semplicemente dico un no, definito,
secco, lo dico pure con una certa spocchia, tiè, no non lavoro;
ancora più bello è quando decido di affermare che sono contro il
lavoro, che poi è vero, ma vai a spiegare…allora a volte non
spiego e lo butto lì, una bella pietra.
Quando lo faccio e se lo faccio è
perché ho voglia di provocare qualcosa, metto un definito lì dove
non c’è, per giocare alle differenze e vedere poi cosa accade, ma
è un gioco pietra su pietra che spesso rimane duro, non costruisce
ponti molli o scale a dondolo, di solito genera il successivo
silenzio della relazione.
Occorrerebbero domande più leggere per
consentire risposte a capriola, proposizioni friabili.
***
.La massa corposa di me, quella che
subisce mutazioni continue, a seconda dei vestiti, del momento, del
ciclo, della capigliatura, della stagione è la bussola della
definizione, dell’unica possibile; è lei che risente e risponde,
lei sa, lei sì, mi indica: sbruffa, s’arraffa, deride, sussulta,
grida, definisce il mio sentire. Santa massa corporea, perché fai da
àncora alla mente, perché salvi dalla complessità per forza e
ovunque… e santa materia altrui!
La materia delle cose, santa e
ineludibile: il ghiaccio del marmo di una panchina e invece il
calduccio nel sedere che dà il legno, la liberazione dei piedi dai
calzetti d’estate, la pastosità del cioccolato sotto la bocca, la
goduria della schiena sull’erba, il battesimo dell’acqua gelida
di maggio.
L’indefinito si arresta sulle cose,
sulla materia sensibile di cui è fatto ogni momento, a volersene
accorgere.
***
Una delle mie migliori letture di
sempre è stata “Poetica del diverso” di Edouard Glissant in cui
lo scrittore e antropologo creolo rivendica per tutti il diritto
all’opacità, parlando di identità e appartenenze.
L’opacità lungi dall’essere un
pappone senza senso è una gustosa mistura di sostanze.
A Martano, i monaci Cistercensi
producono un liquore giallo e trasparente che chiamano Gocce
imperiali, D’Annunzio le descriveva come opale iridescenza:
qui due consistenze materiche definite (in questo caso liquore a
novanta gradi e acqua nella mistura base, con infinite variazioni:
caffè, amaro, ghiaccio) collidendo ne formano un’altra che ne
contiene entrambe, seppur in altra forma. Le due trasparenze
inglobandosi diventano poetica opacità.
L’opacità salva il pensiero dal
rischio di considerarsi assoluto, mono-originato, uni-direzionato,
l’opacità rende possibile l’abitare più stanze interne,
l’essere originati da vari luoghi, da vari cuori, da differenti
paesaggi, senza che questo faccia sfumare quel paesaggio, quel luogo,
quel cuore, quell’interno. È una mescolanza che mantiene il senso
delle parti, ma facendole incontrare genera il nuovo.
Riflettevo pochi giorni fa, guardando i
miei parenti, di come una delle più fortunate evoluzioni della
specie sia stato l’uscire dal sistema endogamico: quanta fortuna
c’è nel mescolarsi a chi è diverso, a chi non appartiene alle
stesse abitudini mentali e familiari, alle medesime idiosincrasìe, è
garanzia di evoluzione e cambiamento costante, perché da ogni
sprofondamento tra diversi uscirà qualcosa di inaspettato, un
indefinito che prenderà la forma di qualcosa che prima non c’è
mai stato.
L’opacità è nodosa, non pulita,
complicata, tiene insieme apparenti opposizioni, disturba la lucidità
e la rigidità, smuove le linee che congiungono i punti, rende
possibili in ordini sparso: le traversate, i trans, le maschere, le
lumache, il pomodoro nero, la pelle color cannella, l’ironia, il
salto con l’asta, il suminagashi, il sushi, la pasta alla
siciliana, il mare dalla punta di Leuca, la pizza con l’ananas, il
colore viola, la bossa nova, la fase rem, la chantilly, la lingua, la
musica, l’arte, l’ombelico…
In definitiva, quando l’indefinito è
generato da due o più diversi materici affari, oggetti, accadimenti,
quando è con questi giocato, rischiato, allora diventa ciò che
salva, conduce al movimento, all’”oltre”, allo sgomento.
per leggere tutta la rivista qui: http://issuu.com/mmmotus/docs/l_osservatore_in_cammino