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giovedì 22 luglio 2010

Appasud_quattro: Dondolii

Martedì, tardo tramonto.
Mi avventuro, cercando qualcosa che mi faccia fermare.
Il caldo di oggi mi ha reso dormiente, ho la sensazione di essermi svegliata da poco.
Seguo la linea densa del corso principale: passi in apnea tra merci, persone, bar e poi qualcosa cambia, una linea invisibile fa mutare il paesaggio: uno slargo, il respiro, un po’ di vuoto.
Siamo alla fine del corso, nella malinconia dello sfarzo che scema, sul limitare di una delle porte che descrivono la città. Passando sotto l’arco si esce, in quell’ oltre che è un po’ come quando finisce la festa e inizia il momento della nostalgia, per alcuni, dell’amore, per altri.
Incastonato perfettamente in questo spazio il suono melenso di un piccolo pianoforte da strada con il suo suonatore e una sottile carezza d’aria che lo accompagna.
La stucchevolezza della scena mi stuzzica, mi ammalia, mi fermo.
Note di canzoni già conosciute, ma storpiate, accompagnano per un breve tratto coppie stanche, coppie mano nella mano, coppie turistiche.
Passi veloci, sguardo a terra, accoppiamenti di solitudini…mi fanno venire voglia di qualcos’altro. E allora disegno in mezzo alla strada quello che non c’è: uno Charlot col bastone che cammina lento, con passo cadenzato, con a fianco la sua signora timida coi guanti di pizzo un po’ logori, buffi innamorati.
Lui si ferma davanti al suonatore, si asciuga la lacrima commossa che gli ha rigato impudica il viso e poi, senza dire una parola, alza gli occhi e le indica con il dito il cielo, che ride con bocca di luna.
Ringhio di cani e grida dei padroni, mi sconcentro, scendo dall’illusione, sono tentata di abbandonarmi alla denuncia della disarmonia, al mancato rispetto di quell’atmosfera, ma allo stesso tempo girandomi vedo lei, salvatrice della mia causa “il romanticismo non è morto, w il romanticismo”. Siede accanto a lui, in silenzio di fronte alla musica. Non c’è un monumento da vedere, una facciata da fotografare. Lei riprende il suonatore con una telecamera e scuote dolcemente le spalle come fosse una chioma al vento.
Mi rassereno e dimentico i cani e soprattutto i loro padroni.
Torno a farmi impossessare della musica, è lei che guida lo sguardo, fa atterrare il pensiero, seduce la mano che scrive.
Mi beo di come l’immaginazione possa rischiarare la realtà.
Può sembrare illusione, o mancata coscienza del reale, ma sono convinta che non lo è: è invece una specie di droga quella che mi rende ostinatamente devota al bicchiere mezzo pieno, una droga difficile da smettere perché il suo potere allucinogeno è talmente forte che genera effetti reali, tangibili.
Come ora, questa musica non bellissima, poco originale, per nulla sperimentale che fa dondolare le spalle, sorridere la ragazza in bicicletta, torcere il collo al passante, mi fa offrire una sigaretta al mio vicino di gradino, che poi me la rioffre e io a mia volta la ri-dono ad un altro, incornicia per i miei occhi un quadro dal titolo “arco con statua appesa a spicchio di luna”.
Canzoni diverse possibili.
E allora, prima che la festa finisca, nel dubbio tra l’orizzonte nostalgico e quello amoroso, ricordo e ancora una volta onoro una frase di Calvino, tormentone che da anni mi porto appresso, come quelle scatoline di legno finte maya piene di minuscoli pupazzetti finto andini.
“L'inferno dei viventi non qualcosa che sarà; se ce n'è uno e’ quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo e’ rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non e’ inferno e farlo
durare e dargli spazio.”

Moderna dama dai guanti di pizzo un po’ logori a spasso col suo Charlot per le strade della città invisibile.


Libri letti da quando sono a sud…
“Vento forte tra Macedonia e Candela, esercizi di paesologia” di Franco Arminio (fino alla fine);
“Le città invisibili”, di Italo calvino.

Appasud_tre: sulle rondini.

Le vedo da quando sono qui, tre mesi ormai.
So che ci sono, mi provocano, mi fanno prudere le mani, vorrebbero essere scritte, ma finora mi sono ritratta.
Parlare di rondini mi sembra un controsenso al mondo. Un atto di indomita leggerezza in un tempo pesante. Mi occorre uno sforzo interiore per farlo, un esercizio di liberazione temporanea dai fardelli quotidiani.
Parlare di rondini equivale ad ammettere il bisogno di poesia e il desiderio di un cielo, non sacralizzato, ma profanamente vivo, quello che fa perno sui cornicioni dei palazzi e li ossigena.
Forse non mi sarei mai imbarcata in questo pensiero scomodo se qua non fossero così insistenti.
Le ho tenute d’occhio ogni giorno, e ogni giorno pensavo fosse l’ultimo: le credevo annunciatrici di primavera e invece continuavo a vederle anche coi sandali addosso.
E’ difficile ignorarle tanto quanto è difficile fermarsi nel mezzo della strada e alzare gli occhi per guardarle.
Ci si sente un po’ idioti a stare a testa in su, a bloccare il passo, dimenticare la direzione sul selciato e sostituirla con quella del cielo.
Ne ho seguito le tracce in questi mesi, in maniera fintamente distratta, tanto da individuarne atteggiamenti diversi e orari favorevoli.
Durante il giorno sono sporadiche, solitarie, ma diventano sinfoniche nelle ore di confine, quelle di passaggio tra il sogno e la veglia, tra il chiaro e lo scuro e viceversa,
Ogni luogo ne determina poi le traiettorie: le vedi ovunque nella città, ma certe vie ne tracciano il disegno in maniera netta.
Su via Leuca, ad esempio, saltano perpendicolari alla strada, da un tetto a quello di fronte, vanno veloci, parlano la lingua delle correnti, disegnano con le piume nere e la voce stridula qualcosa che mi sfugge, ma che percepisco come vitale, un’eccitazione corale, un ritmo incalzante e preciso, tratti nitidi, elementari, come un carboncino su foglio bianco.
Nei vicoli che si diramano da Piazza Sant’Oronzo sono più sfrontate: si tuffano letteralmente dalla piazza dentro le strettoie dei tetti con fare sicuro e spavaldo, in gruppo, come se conoscessero ogni minimo angolo sgarrupato, ogni intonaco scrostato, come se avessero le esatte misure delle linee dei palazzi, una sorta di coscienza comune nella frenesia del movimento.
Ma il vero spasso è osservarle dall’alto dei tetti, in quei balconi a cielo aperto, come il mio, di cui la città è piena. Qui sono libere dalla costrizione degli edifici, unici ostacoli, ignorati, le antenne. Si lanciano in picchiata fin quasi a sfiorarti la testa. Ne senti chiaramente la folata argentea, decisa, repentina, uno scroscio d’ali all’unisono, che si ripete a più riprese. Ogni tanto qualcuna nella risalita si stacca dal gruppo e va a costruire altre forme un po’ più in là. Sono onde nere, imprevedibili, linee curve, cambi di altitudine veloci.
“Secondo te cosa fanno? Perché si muovono così?”
“Secondo me giocano!”.

Mentre scrivo, col mio fido pastis nel bicchiere, sento l’arrivo di una scia ventosa: un accrocchio meticcio di tre ragazzini sopra un’unica bici, uno rannicchiato in mezzo, tra gli altri due.
Inutile chiedersi come fanno a non cadere o dove stanno andando.
Riempiono la scena, sfrecciano nel vicolo cantando a squarciagola “I feel good, na na na na na na na….”.
Giocano.


Libri letti da quando sono a sud…
“Vento forte tra Macedonia e Candela, esercizi di paesologia” di Franco Arminio (fino a pag.76).

Approdo a sud_due. Oltre mmmm....

Trovare bar e luoghi in cui rifugiarmi va di pari passo con la voglia di trovarne altri in cui perdermi e confondermi.
Imbocco il corso principale alla ricerca di un’ispirazione. Mi sforzo di adottare uno sguardo pulito, come se fosse la prima volta.
Non è facile in questa strada sfrondare lo sfoggio di apparenze, per trovare un posto accogliente, un invito alla sosta.
Non amo gli arredamenti moderni, impersonali, l’alluminio dei tavoli, i menù per turisti, proseguo.
C’è un’aria perfetta: fresca, pulita, l’atmosfera da temporale sventato.
La luce è quella gialla del quasi tramonto, con nuvole grigie rabbonite dal sole.
Supero il corridoio che conduce alla piazza della cattedrale e decido, perché no, di fermarmi al bar con vista duomo.
Perché non strappare ai turisti il dominio su uno degli scorci più belli della città?
Il bar mi piace, è elegante, ma non spocchioso, ci sono poche persone, scelgo il tavolo a ridosso dell’uscita, a un passo dal selciato della piazza.
Ordino una sambuca liscia, che probabilmente pagherò cara, ma decido di non pensarci. La cordialità, da esercente di lunga data, del proprietario mi convince.
Questo è il mio terzo avvicinamento, il terzo indizio alla cattedrale.
Il primo è stato letterario.
Ho visto la prima volta il Duomo di Lecce nella prosa poetica di Antonio Errico che lo descrive, leggendo mi sono accorta di non esserci mai andata.
Forse per desiderio di cercare sempre l’alternativa alle strade consumate dalle suole impazzite dei turisti, per protesta a quella smania di monumenti di cui sono vittima gli avventori fugaci.
In effetti gli altri clienti sono chiaramente turisti, lingue e dialetti diversi, discorsi milanesi sul ristorante da prenotare per cena, desiderio di assaggiare il vino di qua, quello che le guide considerano ‘tipico’ e dunque imperdibile.
Anch’io sono straniera, ma la sambuca che ho nel bicchiere dice che qua ho deciso di abitarci, di viverci i miei soliti rituali: sostanza ‘aniciosa’ nel bicchiere, penna in mano e quaderno su un tavolo di legno scuro.
A scardinare subito l’immagine stereotipata degli avventori del locale entrano due barboni dall’aria alpina: faccia bruciata dalla strada, barba lunga, cappello di feltro, stanno spesso seduti nel corso. Sembra che anche per loro faccia parte di un rituale quotidiano entrare qui, andare in bagno, salutare e poi uscire al saluto del proprietario.
Il bar per me rappresenta il limitare, la soglia porosa, il guardare fuori stando dentro.
In questa piazza bisogna entrarci, non si presenta subito.
Ti stuzzica il suo campanile praticamente da ogni punto della città, ma per accedervi, per sentirsi piccoli guardando in su c’è un sentiero da fare, un attraversamento prima che la vista si schiuda e gli occhi danzino tutto intorno, su e giù tra i tanti pieni della facciata e qualche vuoto da rincorrere per lasciar riposare ogni tanto le pupille.
Il lato di fronte alla facciata del duomo non è da meno: i terrazzi che si intravedono sopra i tetti, l’accrocchio di pareti non perfette di case adiacenti, forse abitate, forse no.
A stare in questo tavolo mi accorgo che la piazza non è come la immaginavo.
La rincorsa dei vacanzieri all’angolo perfetto, alla luce giusta per la foto ricordo non interrompe il vociare dei ragazzini in bicicletta che scorrazzano da un lato all’altro, gridandosi codici strani. Sembra ci sia del fumo provenire dal corso che provoca il loro eccitamento, addirittura chiamano uno col telefonino per capire cosa è successo, sono gli autentici vigilantes di questo spazio pubblico, gli unici di cui mi fiderei.
Un altro gruppetto di bambini più piccoli dai tratti orientali prende a calci un pallone e una coppietta staziona sulle scale a lato dell’entrata del duomo, bel luogo per scambiarsi effusioni, penso, quasi coraggioso direi.
C’è anche un ragazzo seduto su una delle rientranze rubate al muro. Non fa nulla, guarda avanti, ha i capelli lunghi e l’aria assente. Penso di averlo già visto, forse davanti a Santa Croce.
Non guarda il duomo, guarda semplicemente avanti o forse pensa con gli occhi, è la figura dell’anti-turista: senza fretta, un po’ perso, accovacciato, defilato, senza nulla in mano.
Ha l’aria di stare lì da molto e di non sentire alcuna necessità di andarsene.
Immagine specchiata della pietra scolpita. Statua pensosa.
“Qui la pietra del barocco è come una lingua madre, un codice genetico, un canto popolare conosciuto da sempre. E’ la sintesi essenziale di una città” (A.Errico).



Libri letti da quando sono a sud…
Viaggio a Finibusterrae, il Salento fra passioni e confini, di Antonio Errico

domenica 4 luglio 2010