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giovedì 21 luglio 2011

It's a long way to the top If you wanna rock 'n' roll (C'è un lungo cammino verso il tetto-balcone se vuoi roccheggiare all'Ammirato tramonto)

Una nuvola magica ha avvolto gli usuali abitatori dell'Ammirato.
Casse enormi e nere hanno iniziato a suonare nella corte, prime note, strascicate, dolci per poi aumentare il ritmo che è arrivato alle orecchie, alle mani, agli occhi, una scossa  e allora è successo di tutto.
Chi stava sotto sentiva senza vedere,  allora è uscito: i bimbi sgattaiolavano nelle panchine fuori,  e aldilà della barricata ferrosa bambine dei palazzoni ballavano e correvano, a colorare finalmente il cemento.
Gli adulti in piedi nel cerchio del giardino fuori tra escrementi e formiche, estasiati.
A guardare non solo  la testa di Oh Petroleum che usciva dalla terrazza, ma soprattutto lo spettacolo della musica che tirava fuori facce dalle serrande chiuse.
Si sono aperti mille occhi, era un continuo di nuovi arrivati, che si affacciavano all'energia del tetto sonante, sognanti.
Il Signore anziano con la carrozzella aveva preso il palco di fronte sopra al bar, la vicina di sotto s'è sistemata nella sdraio, a est palchi balconati con vista sul sole al tramonto, a ovest posti in piedi, ma entusiasti:  il signore con la macchina fotografica, la coppia al secondo piano poi lei, la donna elettrizzata letteralmente dal rock di Oh!, che ha ballato dal momento delle prove a seguire.
Ho immaginato Mario, il novantenne che ha nove anni perché lo zero se lo perde spesso, muovere  la testa a ritmo, con quel sorriso da ragazzino che ruba ancora le caramelle, mentre cena  con la moglie cardiopatica e le strappa una risata giovine.
Il barista dell'angolo ha detto che avrebbe voluto tagliare le fronde del pino per poter vedere meglio il concerto, quello del bar accanto era arrabbiato perché non poteva allontanarsi dal locale.
L'Ammirato intanto esplodeva di energia: fili di sguardi  si intrecciavano a tutti i livelli e in tutte le direzioni. Macchine fotografiche scattavano da ogni direzione a ogni altra. Tutti a guardare tutti e lo spettacolo era in ogni dove, in ogni punto dove la musica riusciva ad arrivare.
Un guardarsi da lontano, comunicando con movimenti di anca, urletti, battiti di mani.
Fluiva energia  in ogni direzione  e al centro la potenza della musica che ha scosso le viscere di un quartiere e ha fatto sì che Trasformati, Dirimpettai, Pubblico, Curiosi, Danzatrici Calve si stringessero mani di cielo e scambiassero chiacchiere alari.
Un quartiere abitato per lo più da anziani che il 15 luglio al tramonto si è scoperto incredibilmente ROCK. Oh!



IL RESPIRO DI SCIPIONE


Durante la mattinata è entrata una signora, è la prima volta che veniva, era contentissima, ci ha chiesto cosa stavamo organizzando, le abbiamo dato il programma e lei se ne è uscita quasi sorridendo ripetendo "E' aperto, è aperto, è aperto...".
Un amuleto di signora, parole magiche che hanno trovato orecchie e mani e alla fine è successo.
Scipione ha spalancato le palpebre, le due porte esterne chiuse dalla ruggine del tempo sono state aperte.
Uno spiraglio di sole esce da quella anteriore a illuminare la scritta in terra " Velenosi Ovunque" e il veleno un pò si addolcisce.
Sbircio da fuori nell'altra porta e vedo Scipione che si affaccia sopra a occhi di tubo.
E' un timido risveglio, la porta è semi aperta, si mescolano le visioni, i pezzi di fuori iniziano ad amalgamarsi con la pietra di dentro.
C'è verde ora all'Ammirato, è il giardino che passa tra i muri, lo spiazzale del palazzo dietro entra nella compostezza nobile della corte.
Rimescolio architettonico. Contaminazione di paesaggi interiori.
Sembra che cambi persino l'aria, lo Scipione ora respira.
E' uscito dal bozzolo, mescola l'odore di segatura con quello degli escrementi al sole, le voci dei Trasformati escono, rompono il silenzio irreale del pomeriggio estivo.
Bolle di sapone escono dalla testa dell'edificio a sfidare le serrande chiuse dei palazzi intorno.
Lieve fuoriuscita di anima soffiata nel cielo del quartiere. Strategia delicata di abitare.
Aprire le porte di casa, abbandonarsi al rischio di quello che può uscire e entrare, spalancarsi alla possibilità di abitare due mondi contemporaneamente.
E' un azione minima, ma che trasforma completamente lo scenario.
Ora lo Scipione fa aria da tutti i lati, è un conduttore di energia. Da fortino chiuso è diventato passaggio di correnti. Trasuda storie e desideri sopiti da ogni lato, è sotto gli occhi di tutti e tutti sono sopra i suoi occhi.
Che il circo abbia inizio.


TRA-MONDI, NOTTURNI E PANCHINE

E' tramonto sullo Scipione, l'attimo in cui il sole arrossato e basso convive con la luna alta e bianca.
E' la soglia del giorno che non è più giorno,
l'attimo che sospende e tiene insieme gli opposti.
E' il momento di stare dentro e fuori.
Far dialogare il trapano con il mantra gutturale delle tortore, quello in cui far scorrere tubi grigi pensando alle serrande semichiuse delle case di fronte.
E' il momento in cui le strutture reggono perché la signora e il marito portano a spasso il cane insieme e ogni tanto si danno il cambio.
L'uomo del giardino accanto sta chino in terra, osserva le piante attentamente poi sceglie. Ne toglie alcune per far spazio ad altre. Infine le bagna per rilassarle dal sole del giorno.
E' tramonto sullo Scipione, l'attimo preciso in cui una donna araba vestita completamente di nero convive con la tortora bianca che sta attraversando lenta la stessa strada.

Anima di soglie da percorrere.

Colano sagome di umido nero dalle pareti dello Scipione.
E' notte, le forze calano e qualcosa si disvela. Interstizi, crepe, segni del tempo.
Si può trovare la forma nascosta delle macchie sul muro,
progettare e costruire imitando la porosità della pietra dura, ma attraversabile?

Lecce è una città che concede poche soste.
La scarsità di panchine rivela un'insofferenza alla sosta, soprattutto in certe zone.
Ci si può sedere in Piazza Sant'Oronzo o alla Villa, proibito farlo alle Giravolte,
dove al massimo si può trovare riparo sui gradini di qualche casa.
Esistono poi panchine da consumare, dove se paghi ti siedi e ti godi la visione della città che si muove.
Arrivando a piedi dalla Villa allo Scipione sono possibili varie soste, attimi di vuoto dal pieno delle macchine.
Girando a destra si arriva a Piazza Verdi, un angolo di ombra fresca, una pianta triangolare circondata da alberi e panchine.
Uomini anziani si incontrano lì, stazionano ore a prendere il fresco, si lamentano, si raccontano.
Un chiosco del bar verdi che apre di sera ha corroso lo spazio, che però resiste, caparbio, a difendere la gratuità dello stare.
C'è persino una sagoma di panchina senza seduta, ancoraggio invisibile, ristoro immaginario.
Tornando sulla via dello Scipione di fronte alla caserma c'è una piccola piazza dove sta di casa uno dei tanti Padre Pio della città.
Ha la bocca spalancata, quasi a sbadiglio è circondato da fiori e piante e un piccolo recinto.
Attorno a lui comode panchine di legno che acquistano ombra nel tardo pomeriggio.
Oasi per le orecchie, perché il rumore delle cicale vince quello di moto e macchine.
Padre Pio sta spesso solo, forse è per quello che ha una faccia strana.
Non sempre è facile mettersi in panchina, richiede la capacità di una presenza, un esporsi allo sguardo altrui, il rischio dell'incontro.
Osservare le panchine significa osservare i resti dell'abitare di una città.
Quello che rimane dello stare senza motivazioni, solo per il gusto di esserci, di uscire dal proprio spazio privato.
Nelle panchine del giardino attorno all'Ammirato sostano presenze colorate e invisibili.
Storie d'amore tra ragazzini consumatisi chissà quando che prendono la forma di dichiarazioni di odio e passione.
Atti di rabbia di adolescenti contro i detentori del potere. Le immagino scritte notturne o rubate a qualche assenza clandestina da scuola.
Un abitare non visibile che si può soltanto immaginare.
Diverso da quello del piazzale di cemento sotto ai palazzoni bianchi.
Lì si rappresenta in maniera tangibile il valore della soglia.
Un gruppo di persone e qualche ragazzino sostano fuori dal portone in quella linea sottile tra casa e fuori.
E' un esporsi protetto dall'inferriata arrugginita, un intramondo.
L'abitare senza pericoli, stare fuori, ma protetti.
Mentre fuori gli abitanti del quartiere si siedono oppure no,
gli architetti in trasformazione lavorano alla costruzione di una panchina anomala.
Un crogiolo di tubi che vadano ad abitare una casa pubblica.
Un ossimoro per la possibilità di abitare una casa come se fosse pubblica
e uno spazio culturale come se fosse casa.
Per ora c'è Davide, il bimbo del quartiere che ha adottato gli architetti.
E' il figlio dei proprietari della ferramenta di fronte.
Ci ha raccontato che suo nonno abitava qua e si occupava del giardino.
Ogni tanto viene, osserva costruisce farfalle con fili e cannucce rimasti di scarto
e oggi s'è seduto ai piedi  di questa struttura ancora informe.
Dice che sembra un alieno e lui ci si è messo dentro, come se stesse in una piccola piscina.
Ha le gambe incrociate e sorride.
Primo abitante dell'aliena panchina.


AMMIRAGLIA LUNA

I palazzi intorno coprono la luna piena.
Nel caldo poroso della pietra l'acqua prende metaforicamente vita.
Scipio indossa una maschera da sub, celebra il mare, l'infinito in cui sprofondare a occhi aperti.
Invoca l'immersione, lo scendere liquido a esplorare la vita del fondo.
La malleabilità dell'esistere.
Una rete da pesca raccoglie pesci volanti nel lampadario del piano di sopra.
Catturare. La luna, la luce del sole, i suoni, le idee.
Ma che sia un catturare dolce, capace di lasciar libero, all'occorrenza.
Costruzioni sottili, fili di senso.
Sarebbe bello mandare un tubo grigio che dalla luna si rifletta ai piedi dello Scipione.

Stamattina i suoni hanno preso le sembianze di un trombettista rom che è entrato nella corte a portare il suo tema di discussione al convivio accademico dei Trasformati.
I tubi della panchina "aliena" si sono riempiti di voci potenziali, una panchina conduttrice di suoni.
Un grande telefono senza fili dove i fili ci sono, ma sono corrugati.
Collegano la terrazza alla corte, sono un gioco sonoro tra su e giù, tra alto e basso.
Sarebbe bello portarci la luna piena  e sussurrarla a chi sta seduto, ma sarebbe come chiudere tra quattro mura ciò che ha vocazione di infinito.
Quattro mura da una parte e l'infinito oltre. 
Danzano, reclamano, litigano e la luna sta là sempre piena, sempre coperta dai palazzi.
Attitudine all'esistere anche senza sguardi,
solo per il gusto di dare sembianze picassiane alla notte.

Scipio Love Festival

Antonio e Antonia festeggiano oggi quarantacinque anni di matrimonio.
Antonia, che il marito chiama Antonietta ha un vestito a fiori, i capelli neri legati, lo sguardo da bimba incorniciato da un filo sottile di ombretto azzurro, Antonio ha la pelle scura e liscia, gli occhi vispi, la guarda di lato sorridendo.
I fiori sono offerti dal fioraio che cinquant'anni fa coltivava petali tra le mura dell'Ammirato.
Dell'allestimento di un gazebo per il rito si occuperà il falegname che in un tempo non ricostruibile aveva il laboratorio in una stanza accanto alla corte.
Al buffet penserà l'anziano barista, che portava i caffè ai sindaci riuniti nell'ANCI. Gli alcolici saranno gentilmente offerti dalla signora dei liquori che abitava al primo piano a destra.
Non sarà come uno dei tanti matrimoni civili che si celebravano qua dentro, ma un evento speciale, un festival dell'amore, in cui i mezzibusti si spos(t)ano, crescono soli nei tetti e le zagare ballano rock and roll.
Agli abiti penseranno le amiche di Antonia e lei stessa si cucirà con filo argentato un velo di tulle ricamato.
Andavano tutte insieme a scuola da una sarta al primo piano di Scipio.
La stanza era quella dove oggi dorme un architetto messinese, uno dei Trasformati che ascolta di notte le storie che le mura gli raccontano. E gliene raccontano tante.
Appendevano i vestiti fatti nel grande lampadario nero della stanza accanto, dove le clienti venivano a prendere le misure e a provarsi i capi.
Ogni mattina facevano colazione nella terrazza scipiona raccogliendo le arance dall'albero che arrivava fin lassù.
A turno cucinavano nella stanza adibita e a turno ogni mattina facevano calare un secchio dall'alto e prendevano l'acqua fresca dalla cisterna che stava in basso.
Quel secchio si è trasformato oggi nelle piastrelle blu scuro del bagno che se la ride a ricordarsi pozzo.
Le sartine sgattaiolavano ogni tanto a rubare le mandorle nella stanza vicino che una donna metteva a farsi tra le scatole di bottoni.
Non possiamo escludere che fossero gli stessi bottoni a camuffarsi nelle notti di luna piena primaverili in gusci dolci-amari.
Proprio dal terrazzo queste bimbette dalle mani d'oro si affacciavano scambiandosi sorrisetti complici ogni volta che i maschi del collegio vicino passavano in divisa. Tutti in fila indiana.
Lei guardava solo lui e lui alzando la testa vedeva lei. "Era piccola, ma bellissima".
Iniziò a corteggiarla, le lasciava ogni giorno un biglietto scritto con delle frasi che erano poesie agli occhi di Antonia.
Un giorno Antonio ha marinato la scuola, l'ha aspettata sotto, lei è uscita, l'ha visto, ha capito che era arrivato il momento.
Da quel giorno non si sono separati più.
Antonia e Antonio si sono innamorati tra terrazza e strada dell'Ammirato Scipioni e si sono sposati il 9 Luglio del 1966.
E' l'architettura dei sentimenti, quella che intreccia le storie d'amore alle trame di truciolato.
"Tutto si trasforma per amore". Era il motto "zen" di Scipio.
Love.

Lo scipione agitato. Cronaca del primo giorno di vita nuova dello Scipione Ammirato.

All'entrata sulla sinistra un busto di Scipione Ammirato sta appeso alla parete.
E' un busto anomalo, la testa ruotata da un lato, in direzione dell'entrata, occhi grandi e un sorriso benevolo in volto.

Così Scipione, ammirato, accoglie i Trasformati.
Nome che diede lui stesso a una sua commedia mai edita e al cenacolo che fondò a Lecce nel '500. Un luogo aperto dove poter discutere di tematiche varie.

Oggi in quelle stanze quindici persone stanno sedute attorno a un tavolo, facce sorridenti reticolo di contatti, arrivi, contributi, stimoli, percorsi.
Architetti, restauratori, precari e no che hanno scelto di essere parte attiva di un processo di rivitalizzazione di uno spazio.

Ricucire un senso abitabile da tutti in un luogo apparentemente chiuso.

Un luogo da rendere casa e spazio culturale pubblico, un meticciato fecondo, che possa accogliere e donare.

Due piani di pietra accecati dal sole, un giardino attorno, panchine in quel dietro che si vorrebbe rendere un davanti per togliere alla strada delle macchine il ruolo di maggiordomo e creare un'entrata più intima.

Un'entrata che non accolga soltanto artisti e visitatori ma che si apra ai palazzi intorno.
Torri alte e bianche issate su una distesa di cemento e separate dallo Scipione da una rete metallica.
Cercare un dialogo che innalzi l'ascolto, da terrazza a terrazza.
A dire se tra voi e noi c'è una rete ferrosa, noi possiamo comunque guardarci negli occhi a un altro livello.

Le persone del quartiere si fermano davanti al cancello aperto, sorridono, alzano lo sguardo incuriosite, chiedono. "Ma quindi lo riaprite? Lo fate tornare in vita? Tanto poi passo..."

Contatti che si creano su una soglia che fino a ieri era muro.

Il barista vuole sapere quello che è rimasto, suo padre anziano rimane zitto, quasi a bocca aperta quando scopre che i quadri che erano dentro non ci sono più, ma come? erano grandi? e i camini? i camini ci sono ancora?

Il senso di perdita non per i ladri entrati in casa, ma per un luogo pubblico spogliato senza che gli abitanti si accorgessero della sua nudità.

Una signora passa e si ricorda che una volta lei andava da una sarta che abitava al primo piano.

Un luogo che è stato cenacolo nel '500, casa privata, sede di una mostra negli anni Settanta di Verri e Dodàro.

Di ogni passaggio conserva una memoria invisibile.

Un luogo abbandonato non solo perché chiuso, ma perché ha abbandonato le storie che ci hanno abitato dentro e intorno.

Un luogo da far rivivere in un processo di architettura relazionale che dialoghi con le forme, ma anche con l'anima estesa di questo luogo, utilizzando materiali poveri, strutture flessibili, che si posino delicatamente su uno spazio denso di pietra e memoria.



La materialità della progettazione la incontri nel tardo pomeriggio accaldato con gli architetti seduti su matasse di tuboni grigi, che giocherellano seri con tubi più piccoli e colorati, e poi nella bacheca della stanza a piano terra.

Nella penombra fresca sfilano appese personalità diverse fatte a disegno, immaginazione progettuale che si traduce in linee, curve, planimetrie fumettate.

Allora lo Scipione diventa "masseria urbana", "fuoriuscita di materia".
Si trasforma in Scipione agitato che con lo sguardo sempre altrove, guarda basito tentacoli tubolari che gli escono da sotto, nonchè possibili rampicanti che gli fecondano la testa.

Agitazione immaginativa che affida storie nuove a pietre corrucciate.