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mercoledì 28 settembre 2011

Obietto

 Obietto:
non so essere obiettiva
sovrastimo l'obiezione
e obiettivamente
l'obiettivo mi sovrasta.

martedì 27 settembre 2011

Donne a sud 2/ A Soleto con Joyce Lussu




Arrivo a Soleto a metà pomeriggio con il treno delle Fse e con Joyce Lussu dentro alla borsa.
Accanto a me una signorina con gli abiti e i capelli da signora, tailleur nero con camicia bianca e gilet scuro. Ricama intenta con filo bianco un complicato disegno. Muove il filo con il dito attorno all'uncinetto, non posso non guardarla. Lei sorride.
Una premonizione.

A Soleto le donne ricamano, lo fanno dietro alle finestre o fuori dalla porta di casa, in strada.
Hanno grossi rocchetti di filo ai piedi. Una signora stava seduta sul marciapiede con le spalle alla strada, di fronte un leggìo con lo schema, accanto due signore più anziane e una bimba.
Sono le uniche che mi hanno salutato, quando la ricamatrice si è girata aveva occhi enormi e azzurro cielo, su una carnagione scura.

La sua scienza divinatrice non aveva nulla di magico e di misterioso. Era la preveggenza dell’esperienza e del buon senso, basata su una conoscenza totale della sua comunità, individuo per individuo, e su un’attentissima capacità di osservazione. Percepiva tutti i linguaggi che non sono solo parole, ma gesti, atteggiamenti, espressioni, tensioni, sguardi, movimenti minimi delle labbra, delle mani, di tutto il corpo, che rivelano l’onda delle emozioni e dei pensieri.

Un altra se ne stava vestita di nero ai bordi di una delle strade principali del paese, spalle contromano e le dita a disegnare giri di filo nell'aria, da lontano il filo era invisibile, lo si poteva solo immaginare e lei aveva polsi da flamenco.
Gli stessi della ragazzina che ho visto poco dopo, camminava in strada a braccia larghe e distese e le mani muovevano nell'aria tessiture non volute.

In via Matteo Tafuri, la via del guaritore, mago, stregone, santo, demonio a seconda degli occhi che lo raccontano, due donne, forse madre e figlia, siedono silenziose nel gradino di casa, nessuna loro parola taglia l'aria, la strada è solo vento leggero.

Lei l'ho vista solo per un attimo, stava dando l'acqua alle piante dal balcone, ci siamo fissate, era circondata da vasi di plastica per piante di ogni colore.

Accanto al circolo cittadino che sembra deserto due donne se ne stanno sedute fuori, arrivano quelle che escono dalla parrucchiera più avanti. Sbircio dentro e il negozio non è il negozio, ma una casa diventata parrucchierìa.

A Soleto ci sono molte porte piccole e uno specchio rotto sotto a una panchina del parco.

Accanto alla Chiesa di San Nicola c'è una piccola corte fiabesca, non c'è traccia di vita, solo una porticina piccola coperta da rami, sopra un archetto di cielo, di fronte un' icona ortodossa, che sembra stata messa ieri.

Nella facciata del Convento dei Frati Minori due facce da diavoli con la lingua di fuori e gli occhi spiritati se ne stanno impietrite e simmetriche.

Attraverso Porta San Vito e arrivo all'unica piazzetta popolata. Lì c'è il Bar Sport. Sfido il muro a secco dei secchi vecchini seduti di fronte e chiedo una dreher piccola. La pago ottanta centesimi. “La porta via no signorina?” e io “No, no la apra pure, la bevo qua”, “Ah.....se vuole si può accomodare dentro che non c'è nessuno”.
Faccio no con la testa, sorrido, mi siedo sui gradini di fronte.
Bevo e fumo, una signora con veste azzurrina mi guarda passando perplessa.

Vicino al Bar Sport c'è un negozio:” Onoranze funebri, piante, fiori, Interflora”, dentro pochi vasi di plastica bianca alti, tipici dei cimiteri, con rari fiori e sul tavolo una montagna di panni bianchi e un ferro da stiro.

Al Bar Sport tutte le donne passano e salutano solo una si ferma, l'avevo già vista prima seduta con l'amica fuori casa. Aveva appena fermato un' altra donna di mezza età con una Ka rossa come gli occhiali, urlandole “Beddazza mia!” e correndo ad abbracciarla.
La signora è grassottella, non giovane, avvolta da un vestito bianco con un nastro rosso sotto il seno, ha un occhio a est e l'altro a ovest, un sorriso decisamente a sud.

...nelle sue vesti festose, col seno prospero e i gesti vivaci delle braccia rotonde sotto le larghe maniche rimboccate fino al gomito, con gli occhi ridenti e la voce squillante e la schietta risata che scopriva i denti forti, era l’immagine stessa di una vitalità prorompente. “E’ tutta, lei,” fu il mio primo pensiero. “E’ una donna intera.”

Se a Galatina ci sono cani sdraiati ad ogni angolo persino cani banchieri, che sonnecchiano tra bancomat e clienti, a Soleto c'è una gatta nera spaparanzata a pelle di leopardo tra sottovasi e bacinelle azzurre.

Nell'ora del tramonto che a settembre è già notte, la villa-parco è piena, piena di anziani e papà maschi seduti nelle panchine a chiacchierare o in bicicletta.
Due eccezioni: una nonna che porta a spasso la nipote e due ragazze adolescenti con le bici di fronte sedute ad una panchina.
Le rivedrò poi in stazione a cercare una panchina al buio, per continuare a raccontarsi, indisturbate.

(Quell'immagine energica e umana) la vidi riemergere anni più tardi, nelle ragazze dai capelli al vento e dai golfini rossi che marciavano su Pratobello per contendere a militari e militaristi i loro pascoli e le loro querce millenarie.

In uno dei bar accanto al parco di quelli con il semicerchio di uomini seduti di fronte, quando già era buio un signore mi ha offerto di sedermi lì fuori.
La signora del bar è seduta con noi, di fronte a lei sta una ragazza più giovane che indossa con spavalderia molta ciccia e un seno prosperoso.
La luce è calata, possiamo parlare del bere, del perché siamo ancora fuori. Un uomo anziano dolcissimo con un problema alla voce racconta che quando è andato ad operarsi a Milano si è preoccupato di sapere non tanto se la voce sarebbe tornata, quanto se avesse potuto continuare a bere vino.
Ridono tutti, io sorrido. Nessuno mi parla, ma uno di loro ogni tanto traduce dal dialetto all'italiano quello che dicono gli altri. Li saluto e mi dirigo alla stazione per il treno delle otto.

In Africa, giravo alla ricerca degli ultimi griots, gli storici-poeti itineranti della gente bantù, che di villaggio in villaggio raccontano, in un lungo poema ritmato, le vicende degli antenati, l’epopea gioiosa del quotidiano, l’incalzare delle sciagure. Andavano, con questa nostra parola sulle labbra, perché anche in bantù la radice del verbo andare è “anda” o “enda” (chi sa, se in tempi molto antichi, non abbiamo parlato la stessa lingua?).

A Soleto le donne ricamano, le ragazze cercano il buio e ogni tanto, solo ogni tanto, donne e uomini tessono storie nell'ombra.



[I brani in corsivo sono tratti da “Il libro delle streghe. Dodici racconti di donne straordinarie, maghe, streghe e sibille” di Joyce Lussu, a cura di Chiara Cretella, ed. Gwinplaine]





lunedì 26 settembre 2011

Le strade della poesia.

Ho partecipato a questo evento
http://farapoesia.blogspot.com/2011/09/le-strade-della-poesia-terza-edizione.html



con questa poesia sulla TERRA:

La terra
è quella che non ho
quella che non mi appartiene
è il quartiere dove sono nata e poi fuggita
la città che era mia pur non essendola.
La terra è quella a cui si abbassavano le mie nonne
quella che i miei nonni scuotevano rancorosi e grati,
la terra è il piccolo orto che coltiva mio padre
che mi dà i pomodori tutto l'anno
per quel gesto amoroso di conservazione.
La terra è dove vivo ora,
incrostata in un sud non mio, che pure lo è.
La terra è quella rossa
che ho visto in Brasile,
simile a quella del sud paese Italia
che i tronchi di ulivo fecondano di poesie semplici.
la mia terra sono io
e tutti i paesaggi che mi precedono,
quelli di cui mi sono cibata,
quelli che mi hanno riempito gli occhi per un po'
quelli in cui mi sono rotolata,
quelli in cui sono affogata.
Terra è
quello che non sono,
pur essendolo.

martedì 20 settembre 2011

C'ERANO LE SPOSE, I GONFIABILI, I CAVALLI Ai margini di un congresso eucaristico


 Così un bimbo, nell'autobus che mi riportava a casa da uno degli ennesimi giri nel cuore della città,
descriveva il pomeriggio in centro a un amichetto.
Siamo nel mezzo di un Congresso Eucaristico con annessa visita del Papa ad Ancona e la città ha una faccia diversa.
Ho fatto vari giri per scoprirne rughe e sorrisi nuovi, cose che prima non c'erano.


Estemporaneità di un e-vento che come tale sconvolge come un vento che viene da fuori.
E' una settimana che il Tg regionale lancia il monito contro le auto, ma giovedì pomeriggio, quando mi aspettavo un'immensa isola pedonale, era solo più facile attraversare la strada.
In compenso, non so se per l'occasione, ho avvistato ben tre biciclette da passeggio per il centro, quelle bici che di solito in questa città le vedi guidate esclusivamente da immigrati nella zona degli Archi, la parte pianeggiante della città.
Facce da pellegrini o volontari, riconoscibili dall'immancabile pass e spesso dalla borsa a tracolla rossa. Attrazione della settimana il pass, viatico per trasporti gratuiti e “Colazioni del pellegrino” a prezzo stracciato in alcuni bar del centro; nonché  “Gelato del papaboys” in una gelateria, e le girls?
Le girls che ho visto avevano braccia forti per montare tende, gonfiabili, organizzare, gestire o facce da ragazzine libere di camminare per le strade a distribuire volantini.
Giovedì pomeriggio era il giorno del tempo libero e dello sport, il cui legame con un congresso eucaristico resta ignoto, ma si sa la chiesa fa tutto, fa giocare e fa fare gli sportivi.
Il centro si è popolato di bimbi e ragazzi che incuranti del perchè ci fossero i gonfiabili, hanno goduto di un centro trasformato in un luna park. Al tempo libero credo corrispondessero gli sbandieratori, le bande, le quintane nel mezzo del corso, con donne e uomini vestiti da dame, le “spose” e cavalieri senza cavallo, quasi tutti seri, composti, dame annoiate, cavalieri altezzosi. Difficile distinguere la rappresentazione dalla realtà.
In Piazza Pertini a lato dei mega gonfiabili per giocare a calcetto e pallavolo con la musica da discoteca, c'erano gli skaters non estemporanei, quelli che ogni giorno scivolano nelle rampe con l'ipod alle orecchie e la maglia dei Ramones. Mondi giustapposti, che sembrano non darsi noia, l'uno incurante dell'altro.


La faccia di Pertini guarda tutto, come sempre.
“I giovani non hanno bisogno di sermoni; i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, coerenza, altruismo”, così dice dalle pareti del muro accanto la bar.
Anche Stamira, poco più in là, semi nascosta da un albero frondoso, sta in bilico tra i mondi: giovane vedova che e ebbe il coraggio nel 1174 di dare fuoco a un barile di pece per incendiare le macchine d'assedio del Cardinale di Magonza, per conto di Federico Barbarossa, ha ora dietro di sè una delle tante bandiere giallo-bianche, presenti soprattutto in edicole e chioschetti per festeggiare la presenza del vaticano ad Ancona.
L'evento regala scene surreali anche fuori dal centro: cinque macchine di grossa cilindrata che scorrono una dietro l'altra a tarda ora nella zona del Piano,  piene di preti vestiti di bianco, venuti via forse da una delle celebrazioni religiose; due preti giovanissimi vestiti da francescani vecchio stile con la tipica acconciatura minimale in testa a chierica scoperta davanti alla stazione di Falconara; un crogiulo di pseudo preti con un mantello bianco con croce rossa alle dieci di sera davanti alla chiesetta di Posatora, in fila per due, due donne in nero a chiudere la fila, nessun fedele, nessuna celebrazione, uno di loro li fotografa, ne dirige i movimenti e le posizioni.
Loro imperturbabili al passaggio di chiunque, una scena leggermente inquietante, che riportava indietro a ere di sacrifici umani.
Sport al palaindor, giovani ballerine nel chiosco della Mole, presentazione del libro YOUCAT, il catechismo per i giovani con applicazione per cellulare che risolve tutti i dubbi sulla vita. Pertini è lontano. E poi concerti, personaggi famosi, via crucis, pranzi con i poveri, pacca sulle spalle agli operai in cassa integrazione della fincantieri, fuochi d'artificio, il tutto comunicato egregiamente in streaming, con video sul backstage della giornata più attesa: la domenica con papa Benedetto XVI,
messa per sposi e preti e poi per fidanzati.
Una mega macchina da grande evento, capillare, che ha coinvolto non solo Ancona e che corteggia il mare. Al porto avviene la celebrazione finale, i vescovi e cardinali hanno soggiornato su una mega nave, la Chiesa prende il largo. Ancona la guarda, ammicca da ogni lato, ha creato maretta il manifesto di Sel di benvenuto al Papa e ai pellegrini, ma non fa una piega il solito cartello messo in ogni dove, dalla Feltrinelli a Zara che domenica rimane aperta per lo shopping pre-Papa. Si sa che davanti a Dio si va vestiti bene. Tutti accolgono la festa in una città che di scombussolamenti ne ha pochi e di gorsse personalità in visita meno.
Il CEN, così amichevolmente si chiama il Congresso Eucaristico, è di certo una macchina ben più grande e organizzata di quella che lo ha preceduto del Festival Adriatico Mediterraneo che al mare di Ancona ha regalato sonorità e parole dal mondo, serate piene di gente, concerti ahimè non gratuiti come gli altri anni, perchè purtroppo i soldi erano meno.
Gli eventi del Congresso no, quelli erano tutti gratuiti, regali distribuiti a piene mani, qualcuno si è portato a casa persino una sedia apribile di cartone, a abitanti assonnati, lamentosi, annoiati, che almeno per qualche giorno hanno avuto qualcosa di cui parlare.
Cosa resta di tutto ciò?
Dove va il vento?
La città dorme ancora. Le folate improvvise, le mega macchine da evento, seppur “sacre”, cosa lasciano dietro di sé? Gli abitanti si sono ripresi la città? Hanno imparato che si può camminare di notte senza paura? Che si può stare seduti sulle panchine anche senza essere ospiti della Caritas?

“Promettimi che un giorno
cammineremo mano nella mano di notte,
restituendo a queste strade
il diritto di essere abitate.
Saremmo spinti
allora
non da e-venti,
ma da vento di mare
e movimenti di cuore.”



Ancona, 11 settembre 2011

(pubblicato da Il paese nuovo:

martedì 6 settembre 2011

I FUOCHI DELLA FESTA DEL MARE. Cronaca da un dirupo.

A Lecce, la città in cui vivo, ogni giorno sparano fuochi d'artificio. Si sentono spari persino nelle ore mattutine. Ogni volta che qualcuno viene a trovarmi posso dedicargli una serie di fuochi. Li usano per tutto: feste parrocchiali, matrimoni, sagre, compleanni.


Per cui è stato strano tornare ad Ancona, la città in cui sono nata, proprio il giorno della Festa del Mare, la prima domenica di settembre, in cui l'immancabile rituale è trovare una buona visuale per godersi i fuochi.

La festa in realtà inizia prima con la processione delle barche e il gettare una corona di alloro in mare in ricordo dei caduti sulle sue acque.

Si esorcizza con i fuochi la paura. “Loda il mare, ma tiente la terra”, il motto di mia nonna, emblema secondo me, di questa città che invoca, ma teme il mare, che da sempre non lo vive spensierata, lo mangia, lo guarda, ci nota, ma con devoto distacco.

Ho sempre pensato che Ancona è molto più bella vista dal mare che dalla terra, le visuali che si hanno del centro storico dal porto rendono una bellezza che non si può scorgere attraversandola.

I più fortunati, infatti, sono quelli che con le barche guardano i fuochi infrangersi sul mare , si piazzano di fronte al molo per vedersi tutti colorati dai riflessi degli spari, gli altri stanno a varie distanze.

Quest'anno tra l'altro c'è anche un pubblico bizzarramente d'eccezione. Non posso infatti non chiedermi come assisteranno allo spettacolo tutti quei vescovi a cui il comune, come alloggio per il congresso eucaristico, evento attesissimo della città, hanno affibiato una nave. Me li vedo tutti vestiti da vescovi, così come ce li ha un po' presentati Nanni Moretti in Habemus Papam, che si sbracciano sul pontile per vedere i fuochi. Quelli più giovani che svegliano i più vecchi inzocchiti dall'ora tarda.

A me, da sempre, è bastato uscire di casa e girare l'angolo.

Così, ripetendo una trafila che avevo dimenticato da un po', alle undici meno dieci muniti di plaid e di una felpina contro vento e possibile pioggia, ci siamo incamminati per cercare un angolo d'erba nel dirupo scosceso che da Posatora declina nel mare.

Siamo in una zona di frane e di anno in anno sembra di stare più vicini all'acqua senza chiedersi se è una paura o una realtà.

Proprio questo corteggiamento sempre più diretto al mare fa di Posatora un angolo privilegiato per vedere i fuochi, tanto che in molti vengono qua da altri quartieri.

Mi sdraio in quell'erba irsuta, vorrei godermi il tintinnare sordo dell' albero. Il vento ne suona i baccelli un po' come fanno quegli strumenti brasiliani ricavati dalle zucche.

Mi piacerebbe anche concentrarmi sull'odore dell'erba e immaginare quello acre del porto e lì aspettare cauta il primo botto, ma il dirupo è pieno di gente. Un po' mi commuove il fatto che ancora così tante persone se ne vengano là a festeggiare il mare di notte colorato da fuochi alati.

Ancora prima di iniziare inizia la solita bagarre: “vedrai che piove e non li fanne cosi risparmiane”, “tanto dureranne poco”, “te ricordi quelli de senigallia quant'erane belli”, e i più polemici: “gli ancunetani se je aumenti le tasse non dicene niente, se je tocchi i foghi s'incazzane”.

Ma è al primo scoppio che il pubblico si scatena.

C'è sempre un bambino che dona ancora a tutti qualche sospiro di meraviglia, immancabile la signora che li commenta tutti uno a uno quasi fosse a una sfilata autunno-inverno, il super critico che ne sa un po' di tutto ne apostrofa la grandezza, apprezzando i più grandi e deprecando i più piccoli. Elogio delle dimensioni. Delusione strisciante del “ma questi è normali!” che viene dopo l'approvazione generale di fronte agli smile infuocati o alle sfere luminose, che a me ricordano pericolosamente il logo di una nota marca di bibita gassata scura che inizia con la P, ma un bimbetto mi rincuora: “E' la bandiera della Francia...”.


Scatta poi la curva Amarcord: “Ma te ricordi quelli de quell'anno, l'89...No! Mamma era ancora viva, era l'82, l'anno che l'Italia ha vinto i Mondiali, erane belli un bel po' quelli”.

Non mancano le steccate alla giunta comunale: chi dice che ha speso troppo e chi troppo poco.

Arriva una leggera pioggerellina e per magia nessuno la nomina, si sta indenni come se nulla fosse ad attendere la fine.

I momenti di silenzio sono rari. A un certo punto una delle attrazioni infuocate è una sfera pulviscolare che rimane sospesa, sembrano i granelli della tv quando si interrompe.

Sarebbe bello interrompere le trasmissioni per uscire tutti a vedere i fuochi della festa del mare.

Mollare la bolla passiva in cui ogni sera gli abitanti ormai di ogni città si rinchudono per uscire fuori tutti insieme a salutare con una festa l'estate che finisce.

Mi guardo intorno e scopro che un po' è così, quei fastidiosi commenti se da una parte sono l'emblema di una anconetanità che non riesce a godersi le cose, che ha sulla bocca una lamentela continua, dall'altra però sono un segnale di non passività, si può persino dialogare con l'amministrazione comunale virtualmente con lo sguardo alto sopra al mare.

Certo, penso, sarebbe stato bello fare una festa vera: che da ogni punto di visione si iniziasse alle nove con braciole e vino rosso aspettando i fuochi e dopo i fuochi qualche bell'organetto o una chitarra. Sarebbe bello che ogni collina attorno al mare si illuminasse di falò aspettando che il mare stesso lo diventi. O meglio ancora si potrebbero fare abbuffate di moscioli, vino bianco e un po' di pane.

Invece già alcuni preannunciano la fine, a seconda della maestosità dei fuochi c'è sempre una voce che li decreta come ultimi, o meglio penultimi perchè tutti, ma proprio tutti, dai bimbi piccoli alle nonne, sanno che i fuochi finiscono quando tre colpi non colorati vengono dispersi nell'aria. Uno, due, tre, è finito.

Auguri mare e grazie che abbiamo potuto sguazzarti dentro per l'intera estate.

Auguri e alla prossima; speriamo che la festa sia davvero una festa, la tua e la nostra.

Ora morire di mare fa meno paura,

forse.



"Approdo" di Mario Giacomelli

venerdì 2 settembre 2011

Montesano e le donne

Provo a scrivere, ma storie, facce e sensazioni mi corrono dentro come cavalli impazziti.
Fa caldo, il corpo è rallentato, dentro invece c'è il pieno.
Mi sembra impossibile  mettere pause tra i pensieri, spazi bianchi tra le parole, ma tento.
Mi verrebbe da parlare delle donne  di Montesano, di come ci sono e non ci sono,
ma poi c'è anche la chiacchierata di ieri con Enzo, il casellante della stazione ferroviaria di Montesano e poi Donato, l'elettricista che oggi mi ha offerto un caffè.
Inizio dalle donne. Già da ieri notavo che nei luoghi pubblici ce ne sono poche ferme, a sostare. Non le trovi nei gradini, nelle panchine, al bar.
Le vedi mentre puliscono come le signore di ieri che tiravano a lucido la casa del  parente svizzero, o come la signora di stamattina che ramazzava nel cortile esterno o ancora quella della chiesa di San Donato, che ha completamente ignorato la nostra presenza in gruppo, indaffarata a cercare in terra le macchie rimaste.
Le donne le trovi al supermercato o dietro al bancone del bar, quello accanto alla Villa, una signora paffuta con lo sguardo paziente o quello di fronte al supermercato, la ragazza brasiliana.
Ieri le ho viste passare in bici e oggi molte sedute nei cortili interni, al massimo le scorgi per qualche istante in piedi sull'uscio della porta di casa.
Mai nessuna fuori, seduta in spazi completamente aperti.
Unica eccezione ieri: le badanti dell'Europa dell'est probabilmente nel loro pomeriggio libero sedute nelle panchine vicino alla fontana fuori del vecchio cortile della Villa.
Si raccontano, fumano, si scambiano numeri di telefono.
C'è sempre una piazza in qualsiasi paese o città che fa da nodo, punto nevralgico aperto per donne chiuse in case non loro, a guardare vecchi non loro.
Diventano i luoghi delle confidenze, della ricerca di contatti per lavorare, delle risate, delle depressioni sfogate.
A parte loro, il paesaggio esterno è maschile, sono gli uomini, per lo più anziani che ti fermano, ti interpellano, si raccontano.
Ho come l'impressione che questa osservazione vada a toccare qualche nervo scoperto di tutto questo lembo di terra.
A me fa venire il bisogno di uteri spaziali, di anfratti ombrosi.
Si parlava oggi della luce di questi luoghi che mostra e si mostra, esplode in un certo senso, inonda, anche se non vuoi.
La sento e per contrasto vorrei scendere la scala di quella stanza che abbiamo visto anche ieri dalla strada principale.
Sopra c'è una scritta "Centro di ascolto di Montesano" e sotto si intravede una stanza buia  con collane di agli sul tavolo. Ieri mi sembrava di aver visto anche pomodori secchi o peperoncini che oggi non c'erano più.
Oppure mi sarebbe piaciuto rimanere seduta dentro all'odore di legno e umido che ho incontrato percorrendo uno dei vicoletti che dalla strada principale conducono a piccoli mondi altri.
Tra case semi rovinate e erba che esce dai mattoni ho incontrato la bottega del falegname. Sentivo i rumori da dentro, ma senza vedere nessuno; mi sarei voluta sedere, ma non ce l'ho fatta.
Ho ripreso la via principale e ho imboccato il vicolo successivo.
Un ragazza è uscita da una porta di legno, mi ha salutato e sorriso, bella.
Questa terra è piena di donne belle con il sorriso largo e gli occhi scuri.
Mentre stavo arrivando al centro del cortile, mi ha fermato un cane piccolo, brutto e rabbioso.
Dietro di lui è uscito il padrone con una scopa in mano, un signore corpulento con la tipica canottiera bianca a costine.
"Gli ho detto tante volte che quando entra una bella signorina non deve abbaiare".
La signorina sorride e torna indietro.
Ripenso all'essere donna, al mio e a quello di chi vive in questo paese del Salento.
Non faccio in tempo a finire il pensiero che vengo fermata da Donato.
Dice che mi ha visto scrivere e si chiedeva cosa stessi facendo.
Donato ha il negozio di materiale e elettrico e lampadari, ha lo sguardo dolce, parla con linguaggio lucido e sicuro.
Esordisce dicendomi che ci siamo allontanati dalla terra e che per questo siamo destinati alla decadenza.
Ha le lacrime agli occhi mentre mi racconta della figlia quarantenne che vive ad Arezzo, laureata, master, consulente finanziario, ma che ha ancora bisogno di essere aiutata dal padre settantenne.
Gli occhi gli si fanno lucidi mentre pronuncia la parola "sacrifici".
"Queste sono storie non parole", mi dice.
Elogiandomi a un certo punto Mussolini per aver distribuito la terra a chi non ce l'aveva e perché pur avendo sbagliato, non era morto arricchito, arriva alla stessa conclusione di Osvaldo, il compagno comunista incontrato ieri mattina.
L'appello a noi giovani per svegliarci. "Ribellatevi per le cose giuste! ci vuole l'idea buona di un uomo che guidi il popolo!".
E le donne? mi verrebbe da chiedergli, ma non lo faccio.
Vuole offrirmi un caffè al bar vicino alla Villa, da Pinuccio. Mentre bevo  sento gli sguardi degli uomini intorno.
Come ora che sono seduta a scrivere sulla panchina e non c'è uomo che passi senza guardarmi.
Più che voluttà sento spaesamento. Perché sta seduta da sola? Non è di qua? Cosa scrive?
Oggi si parlava nel gruppo del  Salento, dell'identità della tradizione. Parole che spesso rimangono vuote perché non scavano. Quando viene qualcuno da fuori il discorso finisce sempre lì. E' viva la tradizione o è solo rappresentazione?
La mia vicina saggia a Lecce mi diceva l'altra sera che le donne qua si sono salvate con la pizzica. Era lo sfogo di un male, per lo più mal d'amore.
E allora alla domanda su verità o rappresentazione credo che la risposta sia che nella rappresentazione c'è un bisogno reale, sempre quello, di guarire dal mal d'amore. Di sciogliere i nodi che l'essere donna o uomo al sud procura al corpo.
Faccio un salto indietro a questo punto e torno a Enzo, il casellante della stazione di Montesano. Faccia dolce, morbida su un corpo grassottello scurito dal sole.
Mentre aspettavo il treno mi ha parlato con parole d'amore del suo paese:  Specchia.
Della bellezza delle pietre, della gente che chiacchiera in strada, "una piccola Positano".
Mi ha descritto estasiato i monumenti più grandi di questa terra che secondo lui sono i tronchi degli ulivi secolari, i veri avi.
Univa in sé la passione per il suo luogo e quella per il viaggio.
"Mi piace osservare quando vado nei posti come si comportano le persone".Un paesologo perfetto, Enzo.
In pace con la sua terra, ma inquieto nel suo desiderio di andare.
"Se non avessi avuto una moglie sta sicuro che non starei qui, me ne andrei in giro".
Le gabbie del cuore, le grate ai desideri a volte le scegliamo, come Enzo, a volte forse non le vediamo neanche.
Come i vecchi e le signore di Montesano.
Se ne stanno ognuno al loro posto: agli uomini i gradini e i bar, alle donne gli usci e i cortili.
Al limitare del tramonto qualcosa cambia: osservo donne in gruppo che si avviano frettolose e zoppicanti alla Chiesa di San Donato, oggi è la novena. Nove giorni prima della festa del santo.
Risalendo la strada verso il cimitero, vedo una donna in una via interna seduta con la faccia al sole e i piedi all'ombra. Più avanti un signore e una signora stanno seduti nell'uscio di casa: l'uomo fuori e la donna subito dentro protetta dal vetro della porta finestra.
Per trovare un'anziana seduta nella strada principale devo arrivare alla fine della via, lì dove lo slargo si apre e le macchine corrono più veloci.
Ha i baffi la signora ed è un po' calva, provo a salutarla, ma mi guarda strano e non risponde.
Arrivo nel parchetto con l'anfiteatro e un bar con ombrelloni di paglia da mare, anche se il mare non c'è.
Chiedo un anice in ghiaccio al bar e mi siedo su una panchina.
Vedo una giovane donna seduta di spalle nella panchina di fronte alla mia e in quella a fianco una bimba seduta e impegnata in strani movimenti.
Capisco subito dopo che le due sono madre e figlia, si allontanano e mi lasciano definitivamente da sola. E' pieno di bambini, ragazzini, giovani, qualche anziano, tutti uomini, le uniche bimbe passano veloci in bicicletta.
Torno indietro, mi riaccoglie Donato. Mi siedo accanto a lui davanti al negozio di lampadari. Lì conosco il nipote con la maglia da superman e il cugino che sapeva a memoria le strade di Lecce. Donato saluta tutti quelli che passano. Un gruppo di uomini di fronte gli grida qualcosa del tipo: "Ah Donato, sempre in mezzo alle fimmine stati!".
Poco dopo escono tutte le signore dalla messa, passano davanti a Donato e, nessuna esclusa, si fermano a salutarlo. Chi un semplice saluto, chi qualche parola in più, a una Donato fa le condoglianze per la morte del marito e lei si allontana urlando "Cinque mesi sono passati!" in tono rassegnato.
Mi è sembrato di capire che una  signora dagli occhi azzurri, come il vestito che indossava, gli avesse fatto degli apprezzamenti diciamo più intimi a cui Donato ha risposto "Ah, mia moglie era la più bella". Ho immaginato che se lo siano conteso e che l'altra abbia vinto.
Alla fine Donato e il nipote mi indicano il personaggio famoso del paese Uccio, detto Uccio Show. Me lo presentano, è stato alla Corrida e a Uomini e Donne e ora si esibisce come spogliarellista nei locali salentini. Mi lascia il numero del cellulare, Uccio Show, un sexy simbolo, come si definisce.
Uccio ha gli occhi da bimbo su una faccia abbronzata e scavata. E' un po' più basso di me, muscoloso sopra e le gambe piccole avvolte da pantaloni colorati. Sorride di quei sorrisi tristi.
Penso allora che si forse è ancora così, vecchi e giovani hanno ancora bisogno che San Donato gli scacci il diavolo da dentro.
Quel male di vivere atavico, che non lascia libero il corpo e il cuore.
Si può guarire dal mal d'amore?
Ogni corpo è un paese e ogni paese trapassa il corpo e ci lascia scorie, entusiasmi, spasmi.

guardala, la terra è più tenera del cielo.
non restare tutta la vita
con le unghie conficcate nella tua anima
o in quella degli altri.
porta il tuo paese in testa
come si porta l’immagine dell’amata.

(Franco Arminio)