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sabato 31 dicembre 2011

Anno-vero



Auguri ispirati alla possibile risposta da dare a questi :)
http://malesangue.com/2011/12/20/il-regalo-di-buon-natalebuon-inizio/

domenica 11 dicembre 2011

Nei contorni di Tuglie

Nel viaggio verso Tuglie si scopre che i treni della Sud-Est sono davvero treni. Ovvero macchine che trainano persone, borse, a volte cani intramezzate da stazioni in cui orari e destinazioni si chiedono a voce, senza mediazioni di schermi non funzionanti o tabelloni orari, e in cui non solo è consentito, ma addirittura obbligatorio attraversare i binari.
Cambio due treni per un'ora di percorso, arrivo in stazione; scendiamo in due. Sin da subito si può notare la peculiarità di Tuglie rispetto ad altri paesi salentini: qui ci sono le salite e tra le case bianche ne spiccano alcune rosa e gialline come quelle che costeggiano la stazione e di fronte a cui sosta un tardivo camioncino della frutta. Mi mette di buon umore.
Sarò per questo che dopo poco incrocio lo sguardo di una signora in mezzo alla via con la solita scopa in mano e guadagno il suo saluto sorridente. Non male come inizio.
Oggi non viaggio sola, ho appuntamento nella piazza principale con Caronte, il mio traghettatore poeta, ma non è ancora arrivato.
Mi metto in panchina ad aspettarlo. Ho un leggero mal di pancia dovuto al mio primo giorno di luna. Ho sempre sentito dire che una donna è più attraente durante i giorni dell'ovulazione, quello che chiamerei il fascino consentito della fertilità. Personalmente invece è proprio in questo momento che sento sguardi diversi attorno, soprattutto maschili, dovuti credo alla sacra libertà del non procreare.
La mia bolla di libertà deve essere particolarmente estesa se mi arrivano da subito fischi e grida dagli unici due abitanti della piazza, due giovani vecchi seduti davanti al bar chiuso, su sedie di plastica bianche. Ai miei occhi sono puntini scuri e sguaiati, ma loro  colgono il mio gesto del rollarmi una sigaretta con risatine da scena erotica. Mi infastidisco e mi alzo a fare un giro. Dopo poco Caronte mi chiama, sfilo altezzosa davanti ai due per entrare nella sua macchina scassata, ma funzionante. Quando racconto la scena al poeta mi dice sicuro che devo stare tranquilla, non mi avrebbero dato più fastidio perché mi avevano visto con lui.
Caronte è di Tuglie, ma quello che scrive lo osserva dai margini delle logiche classiche di paese. Leggo in questo senso il suo portarmi a bere un caffè a San Simone in un bar sulla strada che collega Tuglie a Sannicola. Caronte non appartiene, vive sugli orli, da lì scrive.
Ci sediamo nei tavolini fuori e iniziamo a raccontarci. Ha una bella faccia protetta dagli occhiali da sole, che ogni tanto, quando vuole interpellarmi in maniera più diretta, abbassa leggermente guardandomi dal basso all'alto. Gli chiedo di Tuglie. E' strano per me chiederne prima di averci girato dentro, ma è Caronte a dettare i tempi e mi lascio portare. Il suo è un intercalare puro, parla come scrive e scrive come parla, non c'è distinzione tra uomo e poeta.
Mi racconta dei gironi del paese, quelli in cui non è mai voluto entrare, quelli a cui non ha voluto chiedere nulla, quelli che ha cercato di smuovere. Lui poeta lo è da sempre, anche quando agli occhi del mondo era, ed in parte è ancora, operaio, contadino, emigrato, ribelle, commerciante, padre, marito.
Ora qualcuno ha cominciato a leggerlo, la gente lo riconosce, anche se non ha mai presentato neanche una delle sue tante raccolte nel suo paese.
Quello che ho di fronte è un prototipo non riuscito di poeta maledetto con vita tranquilla, quasi astemio, che racconta passando da parole a versi con soluzione di continuità.
Mi trova bella, glielo leggo negli occhi e questo mi consente di fargli domande sul rapporto tra il paese e le donne, visto che sono lì anche perché alcune sue poesie parlano di questo.
Mi conferma una distinzione diffusa in molti maschi salentini ovvero quella tra donna e fimmena. La fimmena, che era la tabacchina, la raccoglitrice di olive e di uva, è tra i più oggi la donna in minigonna, truccata, che ostenta per farsi guardare, la donna invece, la donna....la donna è complessa, è diversa.
Discutiamo un po'  sulla possibilità da me proposta che queste cose possano convivere in un unico esemplare antico e misterioso di Donnafimmena e che gli Uominimasculazzi la smettano di avere lo sguardo strabico. Alla fine arriviamo a formulare alcune frasi la cui successione di parole convince entrambi. Il poeta si scusa, ha un appuntamento alle cinque, ma mi riaccompagna in piazza, promettendomi di chiamarmi appena si sbriga e di portarmi più tardi a fare un giro in paese.
Appena se ne va mi viene un intenso bisogno di aria, mi sento controllata a stare in piazza, ho bisogno di un punto in cui guardare senza essere vista. Salgo allora sulla terrazza del Museo della Civiltà contadina: sotto agli occhi cartoni di pizza abbandonati e vuoti di bottiglia, in basso grumi di vecchi appollaiati davanti ai vari bar, nessuna traccia di donna e tanto meno di giovani. Riscendo in piazza per andare in bagno, entro nel bar dove mi appaiono gli unici due esemplari sotto i trent'anni. Lui lavora al bar, esce dal bagno sistemandosi, dopo poco esce lei, bella, bionda e, scoprirò poi, rumena. Sotto c'è Fabri Fibra che spezza la flemma di quella piazza per vecchi.
Sono influenzata da Caronte: “questo è un paese per vecchi, tutto quello che viene fatto viene fatto per loro e i giovani appena tentano di fare qualcosa vengono fermati, schiacciati, ammutoliti, io i vecchi non li sopporto”.
In effetti la piazza è loro e non essere guardata è un'impresa difficilissima. Approfitto delle ultime ore di sole per farmi una passeggiata. Le uniche donne che incontro per la strada sono sicuramente badanti straniere. Mentre cammino tra i vicoli penso che i paesi forse sono ancora tali perché puoi ricavarci dentro un angolo di silenzio oltre le macchine e lasciare i panni stesi fuori casa.
Di fronte a un vecchio negozio di quelli che vendono un po' tutto, sta seduto un signore particolarmente vecchio e sdentato, mi guarda fisso: “Dove vai? Siedi qua. Si beddra, beddra, beddra”. Tre volte vista da un vecchio che dal niente si esprime così. Sento che è più vecchio dei vecchi della piazza e penso che quel commento diretto mi ricorda più le parole del poeta, piuttosto che l'ammasso di sguardi di sottecchi che ho ricevuto finora. Lo ringrazio e continuo a camminare, lui mi sorride.
Girando vedo donne sbraitare dentro le macchine o protette da cortili, come al solito le uniche due sedute le trovo ai bordi del paese prima del passaggio a livello: due donne di mezza età straniere nella panchina più nascosta.
Incontro sedie all'aperto dismesse dall'estate, occhiate scrutatrici e un sacco di muri di casa color verde acqua, simile a quello degli ospedali.
Torno a sedermi nella piazza principale, è sceso un po' di buio e la piazza è più che mai piena di macchine, i grumi di vecchi uomini rimpolpati. Caronte mi racconterà poi che tutte le macchine sono proprio di quei vecchi che giocano a carte nei bar.
Alcune donne si defilano col passo scandito dai tacchi per rifugiarsi in chiesa, altre escono sospettose dall'alimentari e sviano preoccupate il ragazzo senegalese che tenta di vendere qualcosa.
Questa piazza è bella e particolare tanto quanto sembra noiosa e stantia.
Ho fame, cerco un posto dove mangiare e trovo una pizzeria con i divanetti di velluto rossi. E' un locale che sa di antico. I gestori sono una coppia lui sforna pizze e lei aiuta e sta al pubblico. Mi sembrano tutti e due un'icona di resistenza quotidiana: deve essere duro tutti i giorni commerciare pizza in un paese come questo. Mi siedo a mangiare, di fronte al pesce nell'acquario.
Ha due palle all'infuori come occhi, si avvicina raramente al vetro esterno, più spesso si apparta dietro a alghe finte, si muove a scatti inquieti, quasi volesse saltare fuori.
Sarà la luna, ma credo che il pesce sia fimmena:  sotto la luce finta di un neon perché tutti la guardino senza toccarla oppure nascosta dietro a pareti algose a meditare la fuga.
Mi chiama Caronte, entra in pizzeria e mi porta via, sul Montegrappa, pezzo di paese appoggiato alla collina. Lì un po' di ragazzi e ragazze giocano a pallone nella penombra. Il poeta mi indica un edificio grande lì accanto, una di quelli vuoti, da sempre non costruiti, che era il luogo in cui si andava a fare l'amore: ogni coppia aveva la sua stanza. Fuori l'angolo in cui si leggevano poesie, cantando. Un'oasi sacra, sopra il paese, dove viversi un po', lontano dai vecchi.
Dove poter finalmente guardare, senza essere guardati.
A Tuglie donne e giovani tentano la fuga, o si richiudono in un acquario.
Il resto è solo noia, di quelle che ci puoi solo giocare a carte.
E' come se stare con Caronte mi avesse trasmesso l'uso del margine, iniziare a vedere un paese dal bar limitrofo e finire al monte di sopra è come contornare un paese, vedere tutto ma non poterci entrare oppure sentirsi  sempre visti e desiderare l'invisibilità.
Ecco cosa si guadagna a girare coi poeti!




Nessuno può più stare dove sta.
l’esilio è irrimediabile
da ogni paese
da ogni città.
la residenza è solo una forma
di diplomazia
ormai l’unico luogo possibile
è la poesia.

Franco Arminio

mercoledì 7 dicembre 2011

GIORNATA NAZIONALE DEL CAFFE' SOSPESO

 

Apprendo dallo scrittore Beppe Sebaste nel suo Blog che il 10 dicembre è la giornata del "Caffè sospeso" (http://beppesebaste.blogspot.com/2011/12/caffe-sospeso-giornata-del-dono-anonimo.html). Come viene spiegato si riprende un'usanza napoletana di lasciar pagato nel bar un caffè per l'anonimo che entrerà poi. Pago il mio caffè e ne lascio uno come dono per lo sconosciuto o la sconosciuta verrà. Questa pratica napoletana di abitare i bar sarebbe senz'altro tutta  da riproporre e addirittura ribadire filosoficamente come atto di civiltà, di un abitare umanamente avanzato: la preziosità di un gesto senza tornaconto, l'immettersi in una catena invisibile fatta di tazzine di caffè bevute col sorriso grato, le stimolazioni di curiosità da parte di chi si ritrova un regalo senza averlo chiesto,  tutte pratiche minime di riappropriazione dell'umano vivere nel tritacarne della quotidianità, innestate da un gesto semplicissimo.
Un gesto sospeso, che si dà, senza sapere dove andrà esattamente.
Un'altra cosa che apprendo con piacere e che di questa pratica ne hanno fatto un simbolo sette festival del documentari italiani, che hanno costituito una Rete del caffè sospeso (http://caffesospeso.wordpress.com/principi/).
Il fatto che realtà culturali ai margini dei grossi festival abbiano deciso di collegarsi tramite una rete del dono lo trovo non soltanto un atto culturalmente rilevante, ma anche uno stimolo a farsi contagiare dall'arte del dono nelle pratiche culturali anche all'interno delle nostre città.
Se penso a quante fantomatiche reti ho visto naufragare in varie città d'Italia in nome di una non-sospensione, di una mancanza di dono a catena.
In realtà provinciali esiste spesso un implicito "mors tua vita mea" che impedisce invece la fecondità tra granelli piccoli. Se dai semi piccoli, dagli esperimenti dal basso bisogna ricominciare allora sarà necessario andare dall'altro a contribuire alla sua riuscita e viceversa, ospitarsi reciprocamente, calcare le scene reciproche, scambiarsi gli spartiti e citare in ogni proprio pezzo un pezzo di un altro.
Cosa succederebbe se ogni spettacolo teatrale ne ospitasse un pezzo di un altro, se ogni pagina scritta ospitasse quella di un altro, ogni musicista accompagnasse lo spartito dell'altro, ogni mostra si facesse portavoce di quella del vicino e in uno scatto fotografico mettessi un pezzo di quello di un altro?
Ma di più, sarebbe possibile aprirsi al rischio di un beneficiario oscuro, che magari prende la parola mentre c'è lo spettacolo e nel tempo di un caffè fa il suo teatro, lasciare al mercato un banco vuoto per chiunque voglia, già pagato, esporre le sue cose, o magari prendere nella scrittura la voce che arriva da fuori, in un attimo di silenzio.........."Che c'è? Mi sorridi? Mi guardi e non favelli?".
Si riunirebbero i piccoli margini resistenti di una scena culturale pubblica  spesso noiosa e fiacca e sarebbe come un eco, un eco imprevedibile, rischioso certo, ma vivo.
Allora sospendiamoci, senza sapere esattamente a chi doneremo, lasciamo aperto uno spazio anche senza destinatario, l'unico rischio che potremmo correre è magari che uno non proprio simpatico berrà il nostro caffè, ma volete mettere la soddisfazione di vederlo o immaginarlo sorridere al nostro dono?!
"Tenga il resto, lo lascio per il caffè di chi arriverà dopo.."
"In fine per me la scrittura è un dono, che mi faccio a prezzi modici. Che possa esserlo anche per lo sconosciuto che legge, resta per me una sorpresa, mai potrò abituarmi. E' uno di quegli scambi, incontri di fortuna, improvvisati, a distanza, come versare vino in un bicchiere lontano" (Erri de Luca, Alzaia).