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giovedì 22 marzo 2012

Aspettando Mirodìa. Mito e territorio nello spazio di un sapone: Leucàsia

Foto di Mirodìa


Leucàsia, la greca. Viso di donna bellissima e bianca, sta appoggiata ferma alla roccia il cui mare di fronte un giorno fu suo.
Nuda, sensuale, seduceva col suo canto. Note di Rosa aveva addosso.
Rosa di Afrodite greca, Grande Madre dai tanti nomi. Dalla schiuma del mare emerse la dea e con essa un ceppo spinoso sul quale gli dei stillarono nettare facendo fiorire rose. Rosa-Afrodite sul corpo di Leucàsia per farne signora delle energie femminili, eros fertile e vitale. Conduceva pastori e marinai a impreviste fascinazioni, danze bacchiche e vinose, vino di gote arrossate dal desiderio.
Vaniglia aveva tra le gambe lucide e squamose, scuro baccello a proteggere preziosi semi, a tessere fili con divinità azteche.
Leucàsia, la tentatrice,  incantò il pastore Melisso, volle condurlo fuori di sé, nel mondo dell'oltre, in quel vortice dionisiaco che rendeva le sue malie tanto simili al vino.
Melisso che, casualità forse non casuale, ricorda quella Melissa dolce e tranquillizzante, non cedette al fuoco di Leucàsia.
Rabbiosa la sirena decise di far morire lui e la sua amante tra le onde di un mare furioso.
Leucàsia di mare, anima mediterranea, porto che accogli gli effluvi odorosi delle molte vie che l'hanno attraversata.
Ad accoglierne la danza sinuosa c'è lui l'albero-terra-sole.
Ad abbracciare la sorte di Leucàsia e degli amanti inghiottiti dalle acque ci fu Atena, dea dell'ulivo, che troneggiava un tempo sulla punta del promontorio e che ancora oggi, sotto la crosta delle mura cristiane di Leuca, si fa tempio.
Atena impietosita pietrificò i corpi dei due amanti, perché disgi-unti, potessero però guardarsi in eterno. Olio sulle ferite del cuore a congiungere, senza confondere.
Leucàsia non poté resistere al demone sensuale che la abitava. Si gettò da una grotta per ansia d'amore, in quel mare che solo poteva discioglierla. Divenne anch'essa statua.
Pietra bianca di Leuca.

Leucàsia è una statua sapone, un materico racconto che porta su di i tanti nomi della Dea Madre. Sapone di donna candida e rabbiosa, materna e voluttuosa, parabola degli opposti che sciolti nell'olio armonico e solare dell'ulivo riappacificano il sentimento, ne fanno carezza, brezza.


Leucàsia è un sapone che nasce dalle mani di Simone Dimitri.
Ingredienti: olio extravergine di oliva, vino, o.e. di rosa turca, o.e. di vaniglia.
Mirodìa ricerca, elabora e trasforma gli elementi della cultura salentina e li traduce in saponi ricchi di poesia, sentieri olfattivi unici in grado di portare a una conoscenza insolita e profonda del Salento.
Il dialogo tra Mirodìa e i suoi luoghi d'ispirazione si nutre anche del fascino dei miti che li caratterizzano. Un bagaglio ricco di sorprendenti suggestioni in cui divinità, ninfe e sirene diventano le naturali chiavi di lettura per prendere contatto con lanima del territorio.
Mito e territorio danno vita così a saponi dai nomi evocativi come Leucàsia, Mente fresca, Sogno di piuma, Sikalìndi e altri. Cremose esperienze tattili ognuna con una sua storia attraverso cui assaporare il tocco del mito stesso.

Fiera Mirodìa, la festa delle essenze
Sabato 31 marzo 2012dalle 21.00 alle 23.00
Calimera, via Europa (nei pressi della Chiesa dellImmacolata)

mercoledì 7 marzo 2012

Antidoti al dolore/1....Poesia di non-mercato



Domenica al non mercato ho portato con me l’animo pesante che ha contraddistinto questi mesi: la percezione del malessere mio e di chi mi sta intorno, la tristezza dei vecchi signori col bastone che fanno la fila tremanti all’ufficio centrale delle poste per ritirare dai libretti i loro risparmi, la neve delle ultime settimane che ha fatto ammalare mia nonna, costretta a un ritiro forzato in casa. Quotidianamente se ti fermi a guardare le facce per strada, se parli con le persone ti arriva uno scuro che entra dentro e fa da specchio al proprio. Un dolore sottile e costante, una delicata e protratta compressione del fiato. La difficoltà in tutto questo di un racconto collettivo, di qualche pratica che salvi, che conduca ad uscire dalla fossa in cui tutti, chi più e chi meno, siamo immersi.
Ecco, tutto questo l’ho portato in quella strana piazza-cortile di via di Pettorano 3. L’ho messo lì in quella poesia minima che cercavo di portare, senza nascondere rabbia e stanchezza. Ho lasciato che il mio corpo e lo sguardo ne portassero il peso. Anti-carnevale del cuore.

Ho pensato molto al fatto che abbiamo dimenticato la quotidiana potenza dell’incontrare le persone al mercato. Ci si andava al mercato per necessità e ogni giorno si finiva per farsi riconoscere e per riconoscere. La gente dietro ai banchi, quella vera, sapeva ascoltare, si prendeva il lusso di osservare. Non c’era il super, ma solo il mini: mini incontri con la scusa della spesa, che poi non era affatto scusa perché si portavano a casa pane, verdura, magari pesce ai tempi d’oro e, in qualche giorno primaverile, persino fiori per recidere il peso dell’inverno.
Al mercato si andava anche per scambiare sapori e saperi, magari una ricetta mescolata a una parola di conforto.
Al mercato non si aveva paura di fare quelle piccole domande, impossibili in un super, agevoli in un mini: «Come mai la cicoria quest’anno è così? », «Sa signora è piovuto poco, la siccità… » e un sapere quotidiano arrivava dalla terra in città così, semplicemente con una frase, un gesto.
Dei miei mercati in una città diversa da questa ricordo l’orgoglio di qualche contadino: «Signora guardi qua ho dell’insalata freschissima!».
Poi la città ha insabbiato sapori e odori, relegato al mercato ortofrutticolo una produzione seriale e industriale, che strozza i piccoli contadini.
Ora il fruttivendolo può giusto vantarsi di scegliere i prodotti più strani, magari un cavolo viola che viene dal Belgio. Lucido e bello come una palla da bowling, dimentico ormai del gusto e della passione dolorante della terra che l’ha nutrito.

Arrivo al non mercato in ritardo, sistemo le mie parole tra i banchi. Toni e Giovanni sono già lì con le loro tavole colorate, le facce segnate e dense.
Mentre sistemo spizzico la puccia che Giovanni ha tagliato a pezzetti per farla assaggiare: un’esperienza indimenticabile. Lui mi vede contenta, me ne taglia metà e me la mette in mano.
La gusto come la colazione più buona, come un dono di cura.
Affido a Toni le parole che ho pensato per lui. Le legge serio, ci pensa e poi sorride: «É bello “asciutto di sole” ». Alle poesie a volte capita di non essere comprese, di rimanere tronche, senza mani, ma Toni ha le mani giuste per comprenderle. Non solo, si fa contagiare e risponde a poesia con poesia:  mi chiederà di scrivergli con la mia calligrafia dei cartelli per la sua “Lacrima di sole. olio extravergine di oliva. Bio”  e “qualcuno creò la dolcezza… crema di mandorle. bio”.
Affido “vino utopico” a Urupia. Saverio mi risponde subito: «Guarda questo! Questo si che è uno slogan! ». Mi indica una bottiglia di grappa autoprodotta la cui etichetta recita: “AgGRAPPAti al sogno”.
Naturare appoggia la frase tra un ramo e le bambole, la signora coi capelli bianchi dei gioielli in Macramè si stupisce che abbia pensato quella frase proprio per lei. E’ orgogliosa, contenta: «Ma quanto sei bella!», mi dice.
A un certo punto vado da Giovanni Pellegrino, ha portato il suo forno per le pizze dell’amico Gianfranco di Urupia. Li guardo e penso ad alta voce: «Voi si che avete la tempra di chi sa stare al mondo, non come noi, smidollati! ».
Alla fine delle pizze Giovanni si avvicina e mi domanda il perché di quella frase. Ci sediamo sui tubi, dopo poco arriva Toni, mi si siedono a fianco. Giovanni mi racconta di come giocava quand’era piccolo, delle corse, della strada, dei cortili in cui bastava un vecchio sull’uscio e anche i bimbi piccoli erano autorizzati a stare fuori, insieme a quelli grandi, non c’erano macchine, al peggio cavalli. Toni mi dice che forse se vedo il buio fuori e perché ce l’ho dentro. Non gli ho mai parlato del buio, ma lui evidentemente lo vede e lo sa nominare. «Sei tu che scegli se far caso a un sorriso oppure no».

I produttori e le artigiane del mercato impastano ogni giorno la loro vita con mani e fatica. Sono lì per vendere il frutto di un lavoro che ciba in maniera sana il corpo e lo adorna, lo veste con cura ecologica. Già questo basterebbe, ma c’è di più.
Sono agenti di una vita in cui anima e corpo sono insieme a soddisfare le necessità quotidiane. Le frasi poetiche che ho dato a ciascuno sono solo una virgola. La poesia è tutta loro e non è retorica, non è preziosa, non ha bisogno di sfoggiarsi o di fare bella figura, non sospetta perché è salda, si muove nel mondo sicura e fiera. Non servono maschere speciali, artefatti concettuali, il concetto è espresso in quella puccia perfetta per il palato, la terra, l’anima.
La bellezza in questo caso non è posticcia, è insita in quei formaggi di pecora, buoni e schietti, impilati in quel modo. Una scultura di passione cagliata che dà semplicemente quello che è.

L’invito allora per tutte e tutti è di fare un salto al non mercato, di andarci a piedi scalzi, senza vestito della domenica, senza orpelli di circostanza. Andarci innanzitutto per necessità. Per farsi cibare il corpo e l’anima, come diritto imprescindibile.
La necessità semplice conduce a gesti puri, azioni non imbellettate, ma belle di natura.
Vendere e comprare quei prodotti o provare il brivido del “dono”, del prendere senza dare in cambio, non saranno allora gesti sterili, ma esercizi di un abitare onesto dei propri desideri, antidoti reali al buio che c’è.
Ci vediamo l’ultima domenica di marzo, a piedi scalzi, per trovare un porto al dolore.

Antidoti al dolore/2....Janub: la piazza a sud


Panchina di Donna


Se ti sale lo scuro dentro anche il primo giorno di primavera del terzo mese dell'anno, quando il sole è quasi scandaloso, chiaro e inequivocabile puoi sederti su una panchina, accanto a Janub.  
Janub è sud in arabo, e questo è sole da sud di pelle legnosa.
Janub è un'idea colorata che attraversa mente, corpo e arriva fiera e onesta nelle mani.
Marmellata molteplice e succosa.
Da febbraio Janub si è fatto cantiere che, fuori dalle retoriche della riqualificazione partecipata, crea dispositivi semplici per ricostruire l'arredo di una piazza marginale della città.
Siamo a Piazza Dante, alla periferia del quartiere San Pio, non ancora Rudiae, due traverse più in là c'è la ferrovia.
Una piazza in un confine, che si muove ora con passi precisi e cadenzati, un ritmo scandito dal lavoro con le mani: impasto, linee sinuose, per ridare movimento a un corpo-piazza stanco.
Il progetto nasce da osservazioni e assemblee con gli abitanti, ha superato ostacoli, perchè ha convogliato i desideri di chi abita con quella piazza accanto ogni giorno: bambini, giovani, famiglie migranti, anziani.
Dai desideri è nato un disegno, una nuova postura e ogni mattina un gruppo variegato di persone impara l'arte della muratura, del mosaico, del ferro battuto, facendo, dando vita a una piazza nuova. Un architettura desiderante.
Le maestranze artigiane con mani callose si mescolano all'occhio colorato dell'artista, al lavoro dei ragazzi e delle ragazze che riscoprono nella fatica fisica il sollievo dalle paranoie della mente.

Ecco, se poi ti siedi nella panchina accanto, oltre la rete porosa del cantiere, ascolti il silenzio del vento che fa sembrare suono il rumore della betoniera per il cemento, della flessibile che taglia.
Se guardi bene poi ti accorgi, che in una di quelle panchine, più o meno ogni giorno, c'è una busta bianca di plastica con un nodo. Ci intravedi dentro un plico di reclàme dei supermercati.
Se aspetti dopo poco, quasi sempre alla stessa ora, vedrai apparire Lele.
Arriva con una giacca marrone e un cappello verde da cacciatore che gli copre gli occhi quasi orientali, spuntano sotto labbra grandi.
Si siede nella sua panchina, ha sottobraccio un'altra reclame. Si mette a gambe incrociate e la sfoglia.
Se per caso mai ti sia sembrata inutile tutta quella carta sprecata per pubblicizzare prodotti per lo più dannosi,  puoi metterti ad osservare Lele che con gesto di cura, ne sfoglia ogni pagina. Ti sembrerà a quel punto il più prezioso dei cimeli cartacei.
Quando i colori finiscono Lele si alza, lascia la busta lì. Tornerà.
Quando lo vedo tornare dal suo giro mi osserva. Prima non c'ero, c'era solo il suo rituale, la panchina, la rèclame.
Ora invece prende la busta e si avvicina alla mia panchina.
Lo guardo, sta fermo in silenzio, mi guarda.
Lo saluto, sorride allora. O meglio espande un sorriso che partendo dalla bocca senza incoerenza di pelle gli arriva alle rughe degli occhi, gli innaffia l'iride. E' un momento, un gesto pronto, di coerente bellezza del viso.
Gli chiedo se vuole sedersi, si, risponde, si siede accanto, nella nostra panchina.
Mi prende la mano, la lascia. Me la appoggia sul ginocchio. Mi imbarazzo, ma lui no, lui è felice.
Mi saluta, si alza e se ne va con la sua preziosa busta in mano.
Mentre si allontana di spalle gli vedo ancora il sorriso da primavera in faccia.
C'è un sole scandalosamente vero, vicinanza, " Gli occhi degli altri sono indispensabili a comprendere un luogo".

Janub è un infra-spazio, è cantiere strano, dove dentro ci sono persone e non pedine lavoranti, dove i ruoli si mescolano in continuazione, dove le panchine nuove, quelle in costruzione, hanno linee femminili, dove la rèclame del supermercato diventa prezioso giornale e dove Lele è abitante che costruisce ogni giorno, con un rituale piccolo e aperto al mondo, un modo speciale di stare.
Urbanismo dei rituali minimi.
Janub, Boh? Oh!



Janub nasce da un'idea di Claudia Mollese, antropologa e Afro Carpenitieri, architetto. Il progetto ARTIGIANUB è vincitore del bando principi attivi 2010.
http://janub.wordpress.com/