Foto di Franco Arminio |
Credo
esistano
due
tipi
di
scrittori
e
di
scritture,
l'una
guarda
il
mondo
da
lontano,
da
una
posizione
non
superiore,
ma
distaccata,
come
se
la
materia
della
scrittura
fosse
altro
dalla
materia
del
mondo.
Spesso
questa
scrittura
pullula
di
maniere,
forme
tecniche,
accattivanti
proposizioni,
arzigogolate
trame,
strutture
logiche
complesse,
non
sempre
usate
per
descrivere
fenomeni
complessi,
ma
spesso
per
girarci
attorno
senza
prenderli
mai.
Poi
ci
sono
scrittori
e
scrittrici
portatori
di
una
parola
consunta,
provata,
compenetrante
di
vita
non
straordinaria,
ma
spicciola,
quotidiana.
Una
scrittura
minima
perché
racconta
a
raso
terra
e
da
lì
scende
in
equilibrio
tra
sé
e
realtà.
É
una
scrittura
che
sta
a
penzoloni
tra
le
radici.
Il
primo
titolo
del
libro
Terracarne
di
Arminio
è
“In
nome
del
cane”.
«L'uomo
che
va
in
giro
per
i
paesi,
il
paesologo,
in
realtà
è
un
cane,
ha
il
punto
di
vista
del
cane.
Il
mio
non
è
il
lavoro
di
uno
scrittore
che
porta
avanti
il
feticcio
del
suo
stile
o
della
sua
poetica.
La
mia
è
una
scrittura
sgretolata,
ha
la
postura
accasciata
di
chi
è
stato
colpito
da
un
male
fraternamente
incurabile».
Arminio
non
è
solo
lo
scrittore
che
plana
sul
terreno
ad
altezza
corpo,
ma
è
anche
uno
che
ha
scelto
una
materia
dolorante
da
raccontare,
uno
che
si
è
fermato
ad
abitare
in
un
margine,
che
non
vive
nel
centro,
in
città
e
fa
l'intellettuale,
ma
vive
a
Bisaccia,
in
Irpinia
e
come
cane
si
muove
su
e
giù
tra
i
suoi
paesi.
Non
che
non
vada
fuori,
ma
quando
lo
fa
si
porta
addosso
Aquilonia,
Cairano,
Lacedonia,
Andretta.
Il
suo
è
un
girare
che
nello
stessa
ugual
misura
ricerca
fuori
e
dentro
di
sé
un
racconto
possibile
della
rovina.
«La
mia
disciplina
non
è
fatta
di
protocolli,
ogni
volta
si
inizia
da
zero,
non
basta
attraversare
un
luogo,
ci
vuole
che
il
luogo
ti
attraversi.
E
questa
è
una
cosa
che
non
riesce
sempre.
A
volte
ci
vuole
un'infiammazione,
altre
volte
ci
vuole
un
senso
di
spaesamento».
Con
un
sismografo
interno
sempre
acceso
Arminio
si
mette
in
viaggio,
magari
a
pochi
passi
da
casa
e
si
lascia
ferire
e
ammaliare
da
ciò
che
vede,
dalle
facce,
dai
vuoti,
dalle
decadenze,
dalle
sopravvivenze.
La
sua
è
una
prosa
nuda,
che
spesso
descrive
senza
commenti,
si
perde
nei
dettagli,
altre
volte
invece
li
stuzzica
fino
a
cavarne
fuori
un'esistenza
maggiore,
una
sovra-esistenza.
«La
forma
propria
di
questo
lavoro
è
portare
i
paesi
sulla
pagina.
Dunque
è
una
forma
di
trasloco.
Il
paesologo
non
è
un
viaggiatore,
ma
un
traslocatore.
Non
vado
a
vedere
un
luogo,
vado
a
prelevarlo,
è
come
attraversare
un
bosco
incenerito
e
cercare
di
prendere
una
fragola
e
portarla
in
salvo».
Altre
volte
ancora
invita
senza
dire
del
tutto.
«Mastralessio
non
è
tra
queste
righe
abbiate
cura
di
andarlo
a
trovare
voi.
É
sul
confine
tra
la
Campania
e
la
Puglia,
dove
finiscono
le
alture
dell'Irpinia
e
cominciano
quelle
della
Daunia.
É
tra
Anzano
e
Scampitella.
Se
volete
vi
dico
anche
il
casello:
dovete
uscire
a
Vallata,
sulla
Napoli-Bari.
Fateci
caso,
prima
del
casello
c'è
una
galleria.
Quando
uscirete
dalla
galleria
vederete
che
cambia
la
luce,
siete
entrati
nella
“terra
dell'osso”».
All'osso
Arminio
conduce
il
lettore
perché
si
disvela
e
disvela
la
sua
stessa
scrittura
nella
pagina,
non
nasconde,
si
svuota,
riempendosi
dei
vuoti-paese:
dentro
e
fuori
tutto
allo
scoperto,
senza
paura
del
rischio,
o
dichiarando
anche
quello.
«A
me
interessano
le
parole
che
vengono
fuori
dopo
che
sono
stato
in
un
paese.
Non
milito
per
il
progresso
né
per
l'abbellimento
dei
luoghi,
non
milito
neppure
per
un
loro
ritorno
nostalgico
a
tempi
passati.
Semplicemente
io
costruisco
delle
frasi
in
cui
dentro
ci
sia
l'umore
di
un
luogo
intrecciato
al
mio.
Mi
interessano
i
libri
in
cui
si
sente
l'aria
di
un
luogo
e
della
mente
di
chi
scrive,
non
quello
che
pensa
o
dice.
Come
si
sente,
non
come
dice
di
sentirsi.
Mi
interessa
un
odore,
un
suono
che
mi
parli
direttamente
del
corpo
di
chi
scrive.
Sono
convinto
che
la
scrittura
sia
un
esercizio
di
percezione.
E
allora
il
mio
andare
nei
paesi
significa
allenarmi
a
guardare
il
mondo
che
sta
arrivando».
Arminio
scrive
senza
discontinuità
tra
viaggio
e
dentro
e
viaggio
fuori,
come
un
albero
scriverebbe
della
terra
in
cui
è
immerso;
raccontandone
l'impasto
contamina
chi
legge
e
lo
fa
diventare
partigiano
delle
insenature
di
un
paese,
dei
suoi
venti,
delle
sue
porte,
dei
suoi
vecchi,
“museo
dell'artrosi”.
La
scrittura è essenziale perché essenzialmente muove viscere, sentire
e pensieri di chi legge, non descrive, ma ascrive il lettore a quei
luoghi, trasferisce spasmi e fratture di speranza da terra a carne.
«Sulla
via
del
ritorno
guardo
con
amore
tutta
la
terra
che
mi
circonda.
Vorrei
baciarla,
abbracciarla.
Io
prima
non
la
sentivo
la
terra,
prima
io
sentivo
solo
la
mia
testa».
Da
un dolore interno al dolore delle pietre per arrivare a sfiorare,
solo sfiorare, un brandello di sogno in carne ed ossa.
«Il
mio
è
un
sognare
disperato,
come
silenziosamente
disperato
è
il
Sud
che
mi
vado
a
cercare,
lontano
da
quelli
che
hanno
venduto
al
cemento
la
loro
anima,
da
quelli
che
hanno
voltato
le
spalle
al
mondo
che
li
ha
partoriti.
La
mia
speranza
è
un
altro
Sud,
fatto
di
persone
che
cominciano
a
scambiarsi
abbracci
veri
e
parole
intense,
a
spezzare
il
pane
comune
dello
scrupolo
e
dell'utopia».