Pagine

domenica 3 giugno 2012

DONNE A SUD/ Minervino e le amazzoni




Sono a Minervino per il fine settimana ospite di una coppia di amici, ho bisogno di paesaggi diversi e mura differenti, che le mie ora mi fanno male.
É la prima volta che vengo in questo paese sotto Otranto a otto chilometri dal mare. Il paese mi appare piano e assolato sotto a un maggio che anticipa l'estate.
In due giorni ho visto molte case belle e giardini, tutti appartenenti a persone non di qua, spesso del nord che hanno comprato case prima ancora che esistesse il Salento col suo marketing della sagra e del muretto a secco. L'hanno rimesse a posto con rispetto lasciando il più possibile le forme antiche e la ruvidezza delle pietre.
In piazza di fronte alla chiesa del paese piena di ragazzini in tunica bianca, con aria da dopo comunione, visito il giardino bellissimo di Franco, trevigiano di origine, ma che a Treviso dice di non essere mai appartenuto. Più che giardino è una foresta addolcita delle meraviglie, con cactus alti come alberi e cespugli di rosmarino che spuntano tra spighe, papaveri, fiori di malva. Mi sento strana davanti a tutta questa bellezza in un momento in cui la mia casa è un vuoto e le piante in terrazza sono morte.
Al bar vicino prendo un caffè in ghiaccio, al bancone stazionano rigorosamente uomini, più o meno anziani che si concedono l'aperitivo della domenica. Il barista offre piccole frise con creme spalmabili di olive e pomodori secchi, buonissime. Questa gentilezza fatta al palato con piccole accortezze lontane da noccioline e patatine unte mi commuove.
La sera ci concediamo una birra ai bordi del mare di Porto Badisco che in questa stagione non ancora estiva conserva un certo silenzio fatto solo di mare e scogliera. Mi incammino, quasi a picco sul mare c'è una casetta vuota senza porta che ha dato le chiavi all'acqua e al vento. Fuori una panchina in cui siedono erbe selvatiche e dietro un letto a due piazze in cemento. Accanto sul muro c'è scritto:Carne per tutti. Un'alcova a cielo aperto dove mi immagino turni per farci l'amore col rumore del mare. Carne da spartire e da sciogliere. Carne per tutti.
Mi turbo, mi manca la carne, un altro corpo con cui spartire la mia, con cui liberamente stare al ritmo alto e basso delle onde. Torno a Minervino con un'energia compressa da far fuoriuscire. Lungo la strada è il solito tramonto di questi giorni, in questo pezzo di Salento con campi di grano, papaveri e alberi più alti del normale, distese di nulla ripieno solo di quell'esistenza naturale, tipica delle forme vive. Mi placa un po' la mente, ma lo stomaco è sempre in subbuglio.
Tornati in paese mi faccio indicare un bar vicino, lungo la via incrocio un gruppo di ragazzine di quindici sedici anni. Decido di chiedere indicazioni, anche se credo di aver capito la strada, ma mi piace farlo, soprattutto qua in questo sud, in cui un'indicazione può durare anche svariati minuti, è fatta davvero, senza scocciature.
Si offrono di accompagnarmi perché vanno nella stessa direzione. Le seguo, hanno un passo più lento del mio, continuano a chiacchierare come se non ci fossi, o come fossi una di loro. Mentre le ascolto sorrido molto, non so cosa si riversa nel loro mondo di dentro, ma hanno parole da piccole amazzoni. Da fuori non si direbbe, così agghindate come chiede una provincia del sud, con l'acconciatura da domenica. Parlano di una loro amica, l'hanno vista avvinghiata ad un tipo in una panchina di Porto Badisco.
«É esagerata, è scomparsa. Noi non esistiamo più».
«I genitori non l'hanno fatta uscire con noi, ma con lui si».
«Ma quello è perché la sorella sta con uno da tanto tempo e pensano che lei farà lo stesso».
«Ho capito, ma che fai ti chiudi? E quando si lascia che succederà? Non ti puoi chiudere così».
Mi volto a guardarle e sorrido.
«Ho ragione, no?!».
«Non fa una piega», rispondo io.
Così delle giovani quindicenni di Minervino mi diventano un balsamo sulle ferite.
Forse non hanno mai conosciuto il dolore di un abbandono, ma hanno la sfrontatezza sicura di chi ha già capito che chiudersi senza amiche per donarsi ad un uomo non va bene. Mi danno speranza. Domani forse sarà più difficile quando il gioco dell'amore diventerà vita, le pressioni dei genitori saranno più forti e scatterà la ricerca dell'uomo da sposare, ma voglio sperare che quella convinzione faccia da argine.
Mi indicano le cantine, un posto un po' chic, ma non troppo. Le ringrazio e le saluto.
Il locale mi appare ammiccante, a metà tra il Salento e Milano, più curato del normale, esoticamente agghindato. In questo momento è deserto, non me la sento di starci in solitudine. Mi rifugio allora nel bar accanto, un bar di paese decisamente con un altro carattere: più brutto, vecchio, ma in qualche modo più schietto, con le sedie rosse scolorite e Mirabella alla televisione. Non ho voglia di ammiccamenti voglio sentimenti aperti, imperfetti, piani.
Ordino un anice Cappello con ghiaccio e acqua, la mia bevanda preferita dei paesi, mi siedo fuori e mi guardo intorno prima di prendere la penna tra le mani: accanto tre signore anziane stanno sedute davanti alla porta di casa. Amo questa immagine, è la mia preferita, la prima che mi sono portata via tempo fa da questo Salento: l'accrocchio di donne fuori dalle porte nelle sere d'estate a rendere porose le case e vive le strade. La più giovane è seduta sul gradino, le altre due su sedie bianche di plastica, le sento parlare fitto.
Penso che le donne hanno una fortuna incredibile, un baluardo al possesso che è la chiacchiera, il flusso di parole consumato per le vie del paese o su una soglia. Mi sento parte di questo movimento in cui il dolore quotidiano, l'affanno dei giorni, le preoccupazioni esistono, ma fluiscono in confidenze sotterranee, intimità condivise, a volte affacciate ai bordi di un paese. Non c'è dolore di uomo che tenga, finché le donne continueranno a parlarsi. Sarebbe sublime e rivoluzionario se lo facessero in pubblico, in qualsiasi paese, in qualsiasi provincia sperduta. Piazze per la chiacchiera libera e oziosa, senza temi, solo trame da stendere al sole.
Guardo le due donne dentro al bar. Hanno un'aria diversa da quelle sedute nel gradino: possiedono una sorta di sguardo crudele, sembrano contenere una particolare forma di femminilità contratta. Paiono dure di rocce e cactus, ma poi se le guardi e ne cerchi l'orgoglio, la dignità patita smontano l'armatura e ti fanno sorella. Amazzoni ferite.
Una esce e mi fuma accanto, mi giro a guardarla, viene a svuotarmi il portacenere e se ne va via, a piedi.
Mi sento ripulita della polvere, a mio agio, accolta in quel mio stare scalzo con l'odore di anice in bocca e una quaderno sotto agli occhi.
Credo nella potenza di una donna che anche nella sofferenza di stereotipi ingoiati a forza, rischia il gesto pubblico, seppur minimo. In alcuni paesi è una rarità, qua ancora esiste.
Quando torno nella casa in cui mi ospitano c'è Olga, una gattona rossa e sorniona. Faccio per sedermi nel divano del patio interno, lei mi precede più veloce, poi però si sposta un po' più in là, mi fa spazio e si accascia. Assumo posizioni irrequiete, penso al mare, al letto di cemento, e poi alla mia casa vuota, all'impasto a quattro mani che non c'è più. Olga risponde al contrappunto dei miei pensieri standosene spaparanzata ad occhi chiusi con le gambe all'aria davanti a questo venticello di sera quasi estiva. Goduriosa e perfetta, un esemplare di amazzone felina.
Vorrei essere come lei ora, ora che invece ho paura a dormire nel letto che la mia amica mi ha preparato in una sorta di depandance staccata dal resto della casa, ora che la mia anima amazzone è dispersa, fatta a pezzetti, ora che vorrei solo chiudere gli occhi, alzare la testa e sentire la compagnia della luna e farmela bastare.