Sono
a
Minervino
per
il
fine
settimana
ospite di una coppia di amici, ho bisogno di paesaggi diversi e mura
differenti, che le mie ora mi fanno male.
É
la prima volta che vengo in questo paese sotto Otranto a otto
chilometri dal mare. Il paese mi appare piano e assolato sotto a un
maggio che anticipa l'estate.
In
due
giorni
ho visto molte
case
belle
e
giardini,
tutti
appartenenti
a
persone
non
di
qua,
spesso
del
nord
che
hanno
comprato
case
prima
ancora
che
esistesse il Salento col
suo
marketing
della
sagra
e
del
muretto
a
secco.
L'hanno
rimesse
a
posto
con
rispetto
lasciando
il
più
possibile
le
forme
antiche
e
la
ruvidezza delle
pietre.
In
piazza
di
fronte
alla
chiesa
del
paese
piena
di
ragazzini
in
tunica
bianca,
con
aria
da
dopo
comunione,
visito
il
giardino
bellissimo
di
Franco,
trevigiano
di
origine,
ma
che
a
Treviso
dice
di
non
essere
mai
appartenuto.
Più
che
giardino
è
una
foresta
addolcita
delle
meraviglie,
con
cactus
alti
come
alberi
e
cespugli
di
rosmarino
che
spuntano
tra
spighe,
papaveri,
fiori
di
malva.
Mi
sento
strana
davanti
a
tutta
questa
bellezza
in un
momento
in
cui
la
mia
casa
è
un
vuoto
e le
piante
in
terrazza
sono
morte.
Al
bar vicino prendo un caffè in ghiaccio, al bancone stazionano
rigorosamente uomini, più o meno anziani che si concedono
l'aperitivo della domenica. Il barista offre piccole frise con creme
spalmabili di olive e pomodori secchi, buonissime. Questa gentilezza
fatta al palato con piccole accortezze lontane da noccioline e
patatine unte mi commuove.
La
sera
ci
concediamo
una
birra
ai
bordi
del
mare
di
Porto
Badisco
che
in
questa
stagione
non
ancora
estiva
conserva
un
certo
silenzio
fatto
solo
di
mare
e
scogliera.
Mi
incammino,
quasi
a
picco
sul
mare
c'è
una
casetta
vuota
senza
porta
che
ha
dato
le
chiavi
all'acqua
e
al
vento.
Fuori
una
panchina
in
cui
siedono
erbe
selvatiche
e
dietro
un
letto
a
due
piazze
in
cemento.
Accanto
sul
muro
c'è
scritto:
“Carne
per
tutti”.
Un'alcova
a
cielo
aperto
dove
mi
immagino
turni
per
farci
l'amore
col
rumore
del
mare.
Carne
da
spartire
e
da
sciogliere.
Carne
per
tutti.
Mi
turbo,
mi manca la carne, un altro corpo con cui spartire la mia, con cui
liberamente stare al ritmo alto e basso delle onde. Torno
a
Minervino
con
un'energia
compressa da
far
fuoriuscire.
Lungo
la
strada
è
il
solito
tramonto
di
questi
giorni,
in
questo
pezzo
di
Salento
con
campi
di
grano,
papaveri
e
alberi
più
alti
del
normale,
distese
di
nulla
ripieno
solo
di
quell'esistenza
naturale,
tipica
delle
forme
vive.
Mi placa un po' la mente, ma lo stomaco è sempre in subbuglio.
Tornati
in
paese
mi
faccio
indicare
un
bar
vicino,
lungo
la
via incrocio
un
gruppo
di
ragazzine
di
quindici
sedici
anni.
Decido
di
chiedere
indicazioni,
anche se credo di aver capito la strada, ma mi
piace
farlo,
soprattutto
qua
in
questo
sud,
in
cui
un'indicazione
può
durare
anche
svariati
minuti,
è
fatta
davvero,
senza
scocciature.
Si
offrono
di
accompagnarmi
perché
vanno
nella
stessa
direzione.
Le
seguo,
hanno
un
passo
più
lento
del
mio,
continuano
a
chiacchierare
come
se
non
ci
fossi,
o
come
fossi
una
di
loro.
Mentre
le
ascolto
sorrido
molto,
non
so
cosa
si
riversa
nel
loro
mondo
di
dentro,
ma
hanno
parole
da
piccole
amazzoni.
Da
fuori
non
si
direbbe,
così
agghindate
come
chiede
una
provincia
del
sud,
con
l'acconciatura
da
domenica.
Parlano
di
una
loro
amica,
l'hanno
vista
avvinghiata
ad
un
tipo
in
una
panchina
di
Porto
Badisco.
«É
esagerata,
è
scomparsa.
Noi
non
esistiamo
più».
«I
genitori
non
l'hanno
fatta
uscire
con
noi,
ma
con
lui
si».
«Ma
quello
è
perché
la
sorella
sta
con
uno
da
tanto
tempo
e
pensano
che
lei
farà
lo
stesso».
«Ho
capito,
ma
che
fai
ti
chiudi?
E
quando
si
lascia
che
succederà?
Non
ti
puoi
chiudere
così».
Mi
volto
a
guardarle
e
sorrido.
«Ho
ragione,
no?!».
«Non
fa
una
piega»,
rispondo
io.
Così
delle
giovani
quindicenni
di
Minervino
mi
diventano
un
balsamo
sulle
ferite.
Forse
non
hanno
mai
conosciuto
il
dolore
di
un
abbandono,
ma
hanno
la
sfrontatezza
sicura
di
chi
ha
già
capito
che
chiudersi
senza
amiche
per
donarsi
ad
un
uomo
non
va
bene.
Mi
danno
speranza.
Domani
forse
sarà
più
difficile
quando
il
gioco
dell'amore
diventerà
vita,
le
pressioni
dei
genitori
saranno
più
forti
e
scatterà la
ricerca
dell'uomo
da
sposare,
ma
voglio
sperare
che
quella
convinzione faccia da argine.
Mi
indicano
le
cantine,
un
posto
un
po'
chic,
ma
non
troppo.
Le
ringrazio
e
le
saluto.
Il
locale mi appare ammiccante,
a metà tra il Salento e Milano, più
curato
del
normale,
esoticamente agghindato. In questo momento è deserto, non
me
la
sento
di
starci
in
solitudine.
Mi
rifugio
allora nel
bar
accanto,
un
bar
di
paese
decisamente con un altro carattere: più brutto, vecchio, ma in
qualche modo più schietto, con
le
sedie
rosse
scolorite
e
Mirabella
alla
televisione.
Non
ho
voglia
di
ammiccamenti
voglio
sentimenti
aperti,
imperfetti,
piani.
Ordino
un
anice
Cappello
con
ghiaccio
e
acqua,
la
mia
bevanda
preferita
dei
paesi,
mi
siedo
fuori
e
mi
guardo
intorno
prima
di
prendere
la
penna
tra
le
mani:
accanto
tre
signore
anziane
stanno
sedute
davanti
alla
porta
di
casa.
Amo
questa
immagine,
è
la
mia
preferita,
la
prima
che
mi
sono
portata
via
tempo
fa
da
questo
Salento:
l'accrocchio
di
donne
fuori
dalle
porte
nelle
sere
d'estate
a
rendere
porose
le
case
e
vive
le
strade.
La
più
giovane
è
seduta
sul
gradino,
le
altre
due
su
sedie
bianche
di
plastica,
le
sento
parlare
fitto.
Penso
che
le
donne
hanno
una
fortuna
incredibile,
un
baluardo
al
possesso
che
è
la
chiacchiera,
il
flusso
di
parole
consumato
per
le
vie
del
paese
o
su
una
soglia.
Mi
sento
parte
di
questo
movimento
in
cui
il
dolore
quotidiano, l'affanno dei giorni, le preoccupazioni esistono,
ma
fluiscono
in
confidenze
sotterranee,
intimità
condivise,
a
volte
affacciate
ai
bordi
di
un
paese.
Non
c'è
dolore
di
uomo
che
tenga,
finché
le
donne
continueranno
a
parlarsi.
Sarebbe
sublime
e
rivoluzionario
se
lo
facessero
in
pubblico,
in
qualsiasi
paese,
in
qualsiasi
provincia
sperduta.
Piazze
per
la
chiacchiera
libera
e
oziosa,
senza
temi,
solo
trame
da
stendere
al
sole.
Guardo
le
due
donne
dentro
al
bar.
Hanno un'aria diversa da quelle sedute nel gradino: possiedono una
sorta di sguardo
crudele,
sembrano
contenere una
particolare
forma
di
femminilità
contratta.
Paiono
dure
di
rocce
e
cactus,
ma
poi se
le
guardi
e
ne
cerchi l'orgoglio,
la
dignità
patita
smontano
l'armatura
e
ti
fanno
sorella.
Amazzoni
ferite.
Una
esce
e
mi
fuma
accanto,
mi
giro
a
guardarla,
viene
a
svuotarmi
il
portacenere
e
se
ne
va
via,
a
piedi.
Mi
sento ripulita della
polvere,
a mio agio, accolta in quel mio stare scalzo con l'odore di anice in
bocca e una quaderno sotto agli occhi.
Credo
nella
potenza
di
una
donna
che
anche nella
sofferenza
di
stereotipi
ingoiati
a forza,
rischia
il
gesto
pubblico,
seppur
minimo.
In
alcuni
paesi
è
una
rarità,
qua
ancora
esiste.
Quando
torno
nella
casa
in
cui
mi
ospitano
c'è
Olga,
una
gattona
rossa
e
sorniona.
Faccio
per
sedermi
nel
divano
del
patio
interno,
lei
mi
precede
più
veloce,
poi
però
si
sposta
un
po'
più
in
là,
mi
fa
spazio
e
si
accascia.
Assumo
posizioni
irrequiete,
penso
al
mare,
al
letto
di
cemento,
e poi alla
mia casa
vuota,
all'impasto
a
quattro
mani
che
non
c'è
più.
Olga
risponde al contrappunto dei miei pensieri standosene
spaparanzata
ad
occhi
chiusi
con
le
gambe
all'aria
davanti
a
questo
venticello
di
sera
quasi
estiva.
Goduriosa
e
perfetta,
un
esemplare
di
amazzone
felina.
Vorrei
essere
come
lei
ora,
ora
che
invece
ho
paura
a
dormire
nel
letto
che
la
mia
amica
mi
ha
preparato
in
una
sorta
di
depandance
staccata
dal
resto
della
casa,
ora
che
la
mia
anima
amazzone
è
dispersa,
fatta
a
pezzetti,
ora
che
vorrei
solo
chiudere
gli
occhi,
alzare
la
testa
e
sentire
la
compagnia
della
luna
e
farmela
bastare.