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martedì 17 luglio 2012

MENTE FRESCA o cronaca di un odoroso risveglio


La tavola di Mirodìa


Mi risveglio dal sogno, fuori c'è aria pulita, libera.

Mi sveglio con un inno a Iside, la Scandalosa e la Magnifica. Profumo di menta per invocarla.

Nell'antico Egitto si preparava un unguento: il kifi, a base di varie erbe tra cui la Menta che riattivava corpo e funzioni intellettive, donando forza e lucidità. Pianta mercuriale di quell'Hermes traghettatore, intermediario tra mondi, concilia il passaggio tra sogno e veglia, buio e luce.

Sbadiglio fuoriuscendo l'aria scaldata dalla notte, mi purifico con respiro e menta, metto un piede giù dal letto e già sento il formicolio dei piedi che assaggiano la terra e il sole che entra dagli occhi semi-aperti.

Sole di rosmarino che illumina, scalda la memoria; sento il rumore del mare appoggiato alla rugiada del mattino, paesaggio mediterraneo.

Sto al sole come una lumaca, lunare e ermafrodita. Cerco l'essenza, come Pino odoroso.

Lacrime di resina di Pino: sangue di Attis. Di lui bellissimo si invaghì Cibele, la Madre degli dei. Cibele, dea frigia con forma di roccia, rappresentava arcaicamente la totalità  primordiale che racchiudeva in sé le coppie di opposti, figura androgina. Attis promesso in sposo ad un'altra generò le ire di Cibele, che impugnando il flauto sacro ai pastori di Pan, scatenò la follia dei presenti. Attis si stracciò le vesti e afferrando un pugnale si evirò. Di lui racconta Ovidio:

«e il pino dall'ispido capo e dalle succinte chiome,

caro alla madre degli dei, se è vero che il cibeleo Attis

per lei si spogliò della sua figura d'uomo

indurendo in quel tronco».



Torna, evirandosi, Attis alla madre primordiale, ridiventa androgino in lei, si separa dalla propria virilità per risorgere all'Uno, essenza.

Il pino-albero, memore della storia antica che ne abita il tronco, produce sia fiori maschili che femminili, unione suprema degli opposti.

Olio essenziale di Pino allora perché la mente-corpo faccia un balzo, uno scatto dell'anima verso una saggezza capace di rinfrescare la mente, portando alla memoria un cuore ancestrale.



Mi risveglio dal sogno, fuori c'è aria pulita, libera.

Essenze in effluvi ispirati e odorosi che fluendo nel corpo mi risvegliano alla natura Madre.

Sono  lumaca, tronco, rugiada di mare, ninfa, terra.




Laboratorio di saponi, essenze, racconti odorosi

SOGNO DI PIUMA o di una notte di mezza estate


Foto di Mirodìa





Ho fatto un sogno di sapone: un indiano con una piuma blu in testa e dietro di lui una scia sacrale di lavanda, rosmarino, menta. Attraversava la notte umida e acquosa del solstizio d'estate,  risvegliando il corpo al rituale del passaggio.

C'è un tempo che sta a cavallo tra le stagioni, è il matrimonio del sole e della luna: il solstizio d'estate, “mezzogiorno del cosmo dove i due astri, uniti nelle nozze, spargono le loro energie nell'opulenza dei frutti, tra il frinire delle cicale e il canto lunare dei grilli”.

A presiedere alla porta solstiziale un dio: Giano, l'Iniziatore, il bifronte, colui che conduce da uno stato all'altro, divenuto poi Giovanni tra i santi.

Notte di San Giovanni.

Festa di fuochi ed erbe che proteggono dal buio, dagli spiriti maligni, dai serpenti velenosi.

In questo tempo sospeso tra la morte e la vita stanno tutte e tre: lavanda, rosmarino e menta.

Lavanda di fili e chicchi per abbindolare le streghe, lenirne il fuoco, addomesticargli il buio.

Menta - ninfa che abitava nel mondo sotterraneo di Ade, suo amante. Smembrata da Persefone, Ade la trasformò in pianta profumata e resistente. Menta che, da quel tempo senza tempo, si prende gioco della morte, amandola, regina dell'immortalità, cresce e ricresce, anche se tagliata e vituperata, antidoto ai mali del corpo e della mente-Menta.

Rosmarino, rugiada del mare, umidità notturna da cui rinasce ogni giorno Aurora.

Rametti densi di energia, essenze-amuleto che consentono all'anima di sostenere il passaggio dal buio alla luce.

Erbe tra i mondi, adatte a ottenere presagi dal futuro, erbe che di notte sotto al cuscino conducono a sogni-visioni.

Signore della notte, quindi, affini a quelle streghe evocate ad ogni solstizio. Sanno allontanarle proprio perché le posseggono.

In uno dei tanti sogni da magica notte sta anche la storia di Erodiade-Salomè che grazie alla danza dei sette veli ottenne da Erode la testa di Giovanni, per poi pentirsi e coprirlo di lacrime e baci. Dalla bocca del santo uscì un vento furioso che la spinse nell'aria, costretta a vagare in eterno, uccello femminile, immaginario dell'oscuro volante.

Streghe, come uccelli. Una Ghiandaia blu ad esempio, uccello le cui piume sono considerate dai nativi americani un potente amuleto per ottenere chiarezza in momenti di oscurità e tumulto.

Lavanda, Menta e Rosmarino a evocare streghe, filtri magici, uccelli-totem.

Ho fatto un sogno di sapone: un indiano con una piuma blu in testa e dietro di lui una scia sacrale di lavanda, rosmarino, menta. Attraversava la notte umida e acquosa del solstizio d'estate risvegliando il corpo al rituale del passaggio.

Venne giorno poi, mi lavai con acqua e Sogno di Piuma, purificazione da quell'oscurità lunare scaldata dal sole. Amplesso cosmico, essenziale alternarsi di tempesta e soffio.




lunedì 16 luglio 2012

Il dito di Lola è JANUB



Lola, foto di JANUB

Sono quasi le sei sotto un cielo senza ombre, la piazza è ancora vuota. Siamo al margine del quartiere San Pio, quasi a ridosso della ferrovia, nella piazza che l’associazione Janub, di Claudia Mollese e Afro Carpentieri, sta ri-progettando e ri-costruendo ormai da mesi per restituirla agli abitanti.
E’ da un po’ che non venivo a trovarla la piazza, che i luoghi bisognerebbe andarli a trovare come si fa con la nonna o con l’amico che sta sempre chiuso in casa. E’ spuntato nella piazza un albero in ferro battuto, con specchi colorati come frutti luminosi e una foglia a fare da tettoia al tavolo e poi il colore dei mosaici che sta entrando sempre di più nel grigio dei mattoni e del cemento.
L’albero appare come un segno a carboncino, accanto all’enorme palma che svetta lì accanto, lei risente del vento, lui invece disegna riflessi quasi impercettibili con gli specchi.
Quell’albero pur essendo non vero ha un riserbo che la palma non ha, un passo delicato, una postura  timida. Questa piazza ha in sé un passo lento, piccolo, aperto agli imprevisti del viaggio, in questo si allontana da tutto ciò che viene abitualmente costruito o ristrutturato in città.
Lo vedi subito: non ti salta agli occhi per sorprenderti, vuole che ti avvicini, che la guardi, che ti chiedi, che ti ci siedi dentro.
La piazza è bella, di una bellezza senza spocchia: le linee dei mosaici le decidono insieme Afro, l’architetto, Claudia, l’antropologa e Adriano e Carlo che da giugno sono i nuovi capi cantiere, ma anche la figlia giovane di Carlo che sta aiutando e chiunque si trovi a passare. Adriano e Carlo vivono ai lati opposti della piazza, entrambi si affacciano lì. Adriano insegna fisica all’università, Carlo è piastrellista, marmista, uomo di mani. Quando a giugno la situazione era stanca, poco interesse da parte del comune, calo delle energie, pochi contributi manuali, hanno convocato un’assemblea di abitanti in cui è stata spiegata la situazione. Da allora hanno deciso in molti di venire il pomeriggio e lavorare per finire la piazza.
Un simile processo in un’altra città o in un altro paese avrebbe già un equipe di studiosi universitari pronti a studiarla, ma qua siamo ai margini di tutto, nel finale della cancrena, nel regno dell’estetizzazione barocca, che il vero non abbiamo occhi per vederlo.
Mi domando perché una città non sa cogliere i gesti in dettaglio. Può davvero il governo di una città ignorare che Lola con un ditino piccolo, alle otto di sera, toglie premurosa e precisa la calce che fuoriesce da una pietruzza di mosaico?
Esiste una vera politica della bellezza?
Che solo per quel gesto minimo si dovrebbe immaginare una città nuova, un modo nuovo di fare, di agire, di stare.
Il dito di Lola è Janub. Un progetto che è passato dalle maglie strette dell’istituzione per provare, collaborando, a riportarci un valore, un fiato di progettazione vissuta, di costruzione sensata e desiderata, di dismissione di ruoli e gerarchie.
L”amore per i luoghi non entra nelle stanze dei poteri. Il localismo può essere una coperta pesante che invece di lasciare aperte i pertugi, li sfrutta per imbellettarsi e aumentare il proprio prestigio.
I gesti minimi quasi mai entrano nelle logiche urbane, eppure l’abitare nasce da gesti minimi.
Come quando entri in una casa nuova e appendi un poster di Dalì o o come quando finisce un amore e ti metti a smontare mobili, a cambiare le stanze.
L’urbanistica relazionale non dovrebbe tendere a questo? Cogliere le pratiche vitali dell’abitare per farne occasione di spazio pubblico realmente vissuto. Che una piazza se non ci sono le persone dentro, che si siedono si scambiano parole, sguardi che senso ha?
Che un turista ci può passare, dire che è bella e fare una foto, ma se nessuno la abita cosa resta?
In quella piazza di San Pio la città respira e pochi lo sanno, pochi sono andati a vedere che vento tirava, a lasciarsi sorprendere, osservare un pomeriggio di lavoro per comprendere, per capire.
Un’amministrazione normale o un qualunque movimento alternativo di città dovrebbe passare da qua, dismettere la giacca e la camicia di circostanza e sedersi. Stare, aspettare, ascoltare, sospendere il giudizio, imparare. Nessuna estetizzazione solo stare e farsi dire.
La piazza non è ancora finita e già c’è chi ci sta seduto: Mattia, un ragazzo che ha lavorato qua molti mesi, il cane, gli amici e Lele The Artist, la sola firma che compare in una panchina, che il suo amore per i colori delle reclàme dell’Ipercoop l’ha trasformato in pezzi colorati da accostare uno accanto all’altro.
Questa città che insegue titoli inneggianti alla cultura, al turismo tutto l’anno, ai giovani, si perde Lele, Mattia, Carlo, Adriano, Lola, gli abitatori veri, gli artisti del quotidiano, quelli che non hanno titoli, che vivono, si affacciano, giocano sulle scale, bevono birra sulle panchine e quando c’è bisogno si siedono in terra sotto la calura di luglio e si sporcano le mani di calce, trasportano bidoni, per dare bellezza a un pezzo del loro quartiere.
In questo la città non riesce a specchiarsi, non si guarda, non sa riconoscersi.
Non c’è tregua per chi impiega le mani con negli occhi un sogno, una visione. Non abbiamo parole per stare nella porosità dei saperi, strategie politiche per dare forma alla bellezza. Ognuno osserva dalla sua categoria claustrofobica senza mettere un dito per togliere la calce in eccesso e lasciare pulita la linea ondulata.
 (Pubblicato su Il paese nuovo, l'11 luglio 2012)