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lunedì 29 aprile 2013

MARIA LAI, incontro con la Madre dei Venti




La prima volta che ho incontrato Maria Lai è stato attraverso una scritta cucita con ago e filo, in un modo che concede al filo di rilassarsi, cadere, giocare col suo essere filo: “Non importa se non capisci segui il ritmo”. Lavoravo nelle scuole e quella frase mi è entrata dentro, diceva che l'avrebbe immaginata scritta all'entrata di ogni scuola, di ogni museo o biblioteca, era il suo sogno.
Ero d'accordo immagino quante vergogne, giudizi avrebbe evitato, quanta libertà avrebbe regalato a chi sentiva di avere un ritmo diverso dagli altri. Ho iniziato a cercare cose su questa donna, alla Biblioteca Provinciale di Lecce hanno proiettato un documentario su di lei Ansia d'infinito, di Clarita di Giovanni. Eravamo poche forse solo due, io ho pianto, la mia amica anche.
Una donna con le parole attaccate alle mani, delicatezza lucida dello sguardo che trasforma con cura piccola le cose che tocca.
Maria Lai è morta pochi giorni fa a 93 anni vicino ad Ulassai, il paesino sardo in cui era tornata, dopo vari anni nel “continente”.
Ho versato lacrime, non mi è mai successo per qualcuno che non ho mai incontrato, recentemente avevo pensato che sarebbe stato possibile incontrarla, inserirla in un progetto di racconto sulle donne e la necessità delle mani. Sentivo e sento che le sue trame sottili, la sua arte cucita esisteva nelle mie cose, aveva formato un modo, uno sguardo, un pensiero. Inizio a pensare che ci sia una profondità femminile non urlata, non sponsorizzata che genera montagne in luoghi particolari, in cui spesso nessuno va. Montagne che però altre donne scelgono di abitare.
Un giorno Maria Lai legò l'intero suo paese alla montagna, nel 1981, coinvolse con fatica l'intera comunità perché un nastro lungo ventisei chilometri congiungesse tutte le case tra di loro e poi al monte; una dichiarazione d'amore, di attaccamento al paesaggio che in certi privilegiati luoghi dà ancora forma alle case, porta in seno l'abitare. All'inizio ci furono conflitti, iniziarono a crederci in dieci, e poi divennero creativi: composero un nodo tra le case in cui c'era amicizia, attaccarono pani tradizionali ai nastri nelle case tra cui c'era amore. Poi degli scalatori in un giorno di festa portarono il filo in cima al monte e si danzò tutta la notte.
L'idea le viene da una leggenda sarda di secoli che racconta di una bimba che sale sul monte per portare del pane ai pastori e scoppia un temporale. Il monte, racconta Maria Lai è in Sardegna come il lupo in Cappuccetto Rosso: una montagna che frana pericolosa dove i tuoni rimbombano, lei va e si rifugia in una grotta dove c'erano altri pastori. A un certo punto si vede volare un nastro azzurro, la bimba, l'unica portatrice di stupore, lo segue, gli altri pensano che non ha senso che non vale la pena, la leggenda racconta che la grotta crollò e la bambina si salvò.
Il nastro azzurro come l'arte che salva chi è capace di stupore. Ulassai come metafora del mondo che frana.
Non so come si racconta la vita di un'artista, non ho mai visto una sua opera dal vivo, ma so che l'ho incontrata.
Ascoltando vari documenti audio e video compresa un'intervista di Tonino Casula nel 1977 mi convinco che sono le donne che l'hanno raccontata ad aver avuto la delicatezza di quel nastro nell'avvicinarsi alla magia, ai sogni e alle visioni di Maria Lai.
Lavorava con stoffe fili pietre pane tutte manifestazioni di un rapporto con le cose ancestrale e allo stesso tempo libero.
Possedeva io credo la magia del pensiero che si fa arte attaccate alle cose, non posticcia, ma rasente la terra.
Donna, lottò per essere accettata nei suoi tre anni di allieva di Arturo Martini negli anni Quaranta a Venezia, unica donna all'Accademia, racconta del suo rapporto con gli uomini e con la sua solitudine che bisognerebbe avere compagni invisibili, amori che lascino libere perché, dice, ci sono persone che non appartengono a uno, ma all'infinito.
In lei vedo la delicatezza, la gentilezza, il costruire l'arte con amore, giocando.
Nel 1993 realizza “La scarpata”: progetta su una scarpata le linee di un dinosauro e un cielo stellato al centro, e poi un radar che catturasse i raggi del sole, un giorno una folata di vento terribile sposta degli assi di ferro che erano stati posizionati a terra, le dicono che avrebbero rimesso tutto a posto e lei dice di no “Le pietre mi hanno suggerito”.
La montagna aveva parlato. Lei aveva ascoltato. Fu lasciato nell'opera lo scompiglio del vento.
In un altro episodio racconta che voleva realizzare dei segni su una roccia di pietra, venne chiamata una ditta, il patto era che fossero disposti a stare dietro al suo processo, perché l'opera si fa mentre la fai. Quando gli chiedevano “Ma lei come fa a decidere che va rifatto tutto?”, lei risponde che bastava ascoltare il muro, che il muro diceva. “Ma lei ascolta con gli orecchi il muro?” “Ascolto con gli occhi, anche quando leggiamo ascoltiamo con gli occhi”.
Antri quadrati segnati nelle rocce da cui escono le janas, attraverso un libro cucito Maria Lai ripercorre la strada di queste fate-api che entrano in un mondo di uomini perché esistano le donne e imparino a filare e a tessere, esperte della pazienza della filatura e del rigore delle api.
La roccia e il filo, per ridare un canto femminile a una terra aspra, difficile pietrosa, una ricerca continua di ammorbidire la roccia senza ammansirla, seguire i venti senza domarli.
Immagini ritmiche, in cui la materia segue il ritmo dell'esistente, i fiori sono belli perché hanno un ritmo. Racconta che quando lasciò Venezia e tornò in Sardegna travolta da dolori familiari aveva perso tutto, non sapeva se continuare, il suo maestro diceva che la scultura era morta. Quando le morì l'ennesimo fratello capì che la vita era breve, che doveva prendersi il tempo. Una donna piccola, con le rughe in volto, di salute cagionevole, con una tempra dolce, che ha dato amore ad ogni manifestazione di quella terra rocciosa: dai rammendi della nonna che chiamava “scritture”, ai pani delle donne del paese, alle rocce franose.
Diceva che Ulassai era la metafora del mondo, sottoposto a frane. Dentro la frana ha ascoltato l'ansia d'infinito per dare vita Madre Pietra alle storie nascoste, perché parlassero senza dire del tutto. Dei suoi libri cuciti racconta che molte pagine non si vogliono far leggere perché contengono segreti, sono timidi.
L'olio di parole, ripreso da Lorca, è l'olio dei poeti perché “addolcisce tutti gli attriti, fammi poeta, fai in modo che le mie parole siano olio, invito ad unirsi, a stare insieme ed ogni poesia dovrebbe essere un invito a questo”.
L'olio di parole diventa una geografia raccontata dell'albero d'ulivo, fatto di Sasso, Solco, Sole, Scure, Sale, la trasposizione in segno e parole di un'alchimia antica, ma ri-raccontata, riadagiata nella contemporaneità perché ritorni feconda, concretezza e metafora allo stesso tempo.
Inizio a pensare che venti sotterranei incontrino anime esposte sulle soglie, col desiderio di atti d'amore e gentilezza per un'arte che se è, è solo perché è profondamente intimamente attaccata alla vita e così si mostra, così si espone.
Non è la mostra di sé ma la mostra vera del discorso di un arte che è creatività appoggiata alle cose.
“L'arte è una concretezza che contiene un pezzo di universo e quindi ce lo rende afferrabile, altrimenti ci sfuggirebbe”.
Diceva che voleva che tutte le sue opere venissero chiuse e aperte con atto notarile solo dopo cinquant'anni, perché l'arte ha bisogno di tempo per essere guardata e compresa, sono felice che non l'abbia fatto. La maggior parte delle sue opere sono esposte nella Stazione d'Arte di Ulassai, una vecchia stazione ferroviaria a pochi chilometri dal paese, in alto esposta ai venti, quasi sospesa.
Ho incontrato una maestra senza incontrarla ed è la Madre dei Venti, della Pietra, del Pane, dell'Olio, del Filo che lei tiene in mano e continua a farlo. Noi possiamo riprenderlo e continuare a cucire.

http://www.stazionedellarte.it/