Cosenza. Sguardi di Gianfranco Donadio. http://www.impressionimeridiane.com/ |
Ho viaggiato dentro e fuori me nel paesaggio di un altro
sud. Nella prefazione alla rivista Caffè Greco dell'ottobre 1980 così scriveva
Antonio Verri: «Tu prendi la parola Sud per esempio, cerca di infilartela
lettore nelle orecchie, quindi cacciala dal naso, poi passala negli occhi e
dopo falla uscire dalla bocca. Se non ti basta, prendi un bel po' di pane (se
duro è ancora meglio) e pomodoro e condiscilo col Sud, o se vuoi, infila un
dolce Sud in tasca e dimenticatelo per qualche tempo.»
Così lo dico il sud lasciando che m'attraversi, che esca
masticato, digerito, incompreso, intenso, ferito, generoso.
Il viaggio ha in potenza la possibilità di spaesamento, non
è detto che accada, questa volta mi è successo. Forse perché non viaggiavo sola
da un po', sicuramente perché già dal viaggio in treno vengo provocata e le
stesse provocazioni le ho sentite poi nelle persone che ho incontrato: c'è uno
strattonamento nelle viscere di questo sud che si avverte in maniera più forte
che in altri luoghi.
Da Lecce a
Cosenza sono sette
ore e tre cambi:
Brindisi, Taranto,
Sibari. Tre collegamenti
al giorno e poi
basta. Accanto a
me una ragazza è
partita da Lecce
verso Napoli, quasi otto
ore.
Da sud a
sud è complicato,
perché nord sud si
comprende ma sud
sud sembra da pazzi
o disperati. Rischio
di perdere il treno
a Brindisi perché inghiandita
da una specie di
falena colorata,
a metà tra il
giorno e la
notte. È entrata
nel vagone e tentava
di uscire dall'intercapedine
del finestrino. Mentre
pensavo di alzarmi
per liberarla ho capito
che ero arrivata,
sette minuti, la paura
di perdere già il
primo cambio. Arrivo al
sedile in tempo
con una leggera nausea.
A Taranto c'è il
bus sostitutivo, sembra sostituisca
già da mesi un treno fantasma. Il bus
attraversa le viscere
del mostro: puzza, budelli
svuotati di palazzi,
la distesa indecente
dei cilindri d'alluminio,
qualcuno dovrebbe
pagare per ognuno
di quei conati lasciati
senza senso ad arrugginire,
qualcuno dovrebbe
pagare il fatto
di togliere il respiro.
La prima fermata del
viaggio-processione è Chiatona,
un grumo di villette tutte
diverse, una sorta
di villaggio surreale
tra pini marittimi,
sembra che ognuno
ci si è costruito
la casa a sua
immagine e somiglianza,
chi voleva la baita
l'ha fatta, chi la
villa stile americano,
pure. Ginosa Marina, Metaponto,
Policoro, Rocca Imperiale,
Roseto Capo Spulico,
Amendolara Oriolo, Trebisacce,
Sibari. Ho letto
che ci sono le
terme, alla stazione
c'è solo sudore. Il
bar è chiuso e
se sei donna non
sfuggi allo sguardo
di nessun uomo che
passi o stia fermo.
Vengo colta da un
furore “eviratorio”.
Raggiungo l'apice con
il capostazione che
nella saletta del distributore
automatico parla a cinque
centimetri di distanza
a una ragazzina
che per non guardarlo
in faccia gli risponde fissando
l'i-phone. Vorrei aprirle
il finestrino, ma arriva il treno.
Da Sibari a Cosenza mi riconcilio col
paesaggio: balle tonde di fieno, vigne collinari, ulivi in salita, alberi da
frutta, pesche credo, sento una familiarità con le colline di casa mia. Mi
rilasso e penso che più in là c'è la Sila, i boschi. Ci sono stata l'anno
scorso a casa di un'amica e mi ha provocato delle fitte. Le montagne me lo
fanno, c'è un ombrosità che mi turba, le sento pareti le montagne a volte
muraglie difficili da scalfire, ingorghi emotivi, durezze antiche.
Queste colline invece che pure se non
lo vedi sai che conducono al mare mi distendono, mi cambiano il ritmo dei
pensieri. Sono in un altro sud bagnato da due mari, un altro pezzo di zolla
staccatasi da quel grumo di Pangea, qualcuno mi racconterà in questi giorni che
la Pangea stava dove ora è Africa, come se lì c'era l'origine, il cuore e poi
ciascun pezzo si è allontanato.
Penso che chi si è allontanato di più
ha perso maggiormente il cuore.
Alla stazione di Castiglione Cosentino
approdo all'abbraccio della mia amica Maddalena. Subito le contratture d'inizio
viaggio si fanno più lievi. Mi faccio coccolare da Contrada Vallone, un piccolo
paradiso verde con una luce speciale al tramonto. Lì Francesco e il signor
Vincenzo fanno l'orto attorno casa. Faccio conoscenza con l'uva spina che ha
delle bacche trasparenti e tonde, piccoli palloni aerostatici tra il giallo e
il rosato, raccolgo i fiori secchi che cadono da un albero, mi meraviglio
davanti all'esotismo della passiflora. La sera c'è la luna su e le lucciole
giù. Sento che tutto questo mi cura e cura in particolare le paranoie del
pensiero, relativizza le inquietudini, come se tutto tornasse al posto giusto
non più l'essere umano, io, al centro.
Appena tocco la città mi torna
quell'agitazione sottopelle: ho in testa il voler capire, voler vedere, dover
scrivere e quest'ansia da prestazione di solito non aiuta la tessitura, ho
bisogno di vivere prima, stendere fili, solo stare, ascoltare, immaginare, ma i
pensieri si sovrappongono veloci e non riesco a fermarli.
Cosenza non si lascia prendere dal mio
sguardo, non riesco ad immaginarne la forma, mi sembra enorme, simile a se
stessa. Mi sono persa più volte nei miei nodi e spesso mi si è allappato il
linguaggio.
La Cosenza nuova è una ferita nel
paesaggio, una specie di lama che trancia la campagna intorno: uno stradone
enorme la spezza, chi ci fa jogging ai bordi non sembra preoccuparsene. Fanno
da cornice palazzoni brutti, inutilmente alti, spesso disabitati e invenduti.
Esempio non unico dell'urbanizzazione
sfrenata che ha svuotato la città vecchia con l'illusione della nuova fatta di
centri commerciali, casinò, mega hotel. Sono convinta che vivere dentro certi
paesaggi cambi la forma del corpo, se è vero che c'era tutta campagna con il
borgo vecchio allora c'erano altri esseri umani con altre posture. Il paesaggio
è un corpo che forma quello umano. Quello che lo sguardo vede, i passi che si
fanno sul basolato o sul cemento, l'aria che entra dal naso, credo che questo
comporti spaesamenti e mutazioni corporee.
Finito il delirio grigio con colori
improbabili lo sguardo si apre, le pupille tornano a respirare: c'è il ponte
con i due fiumi il Crati e il Busento che si incontrano lì dove si dice ci sia
il tesoro di Alarico, nessuno l'ha ancora trovato. Forse il tesoro era proprio
che esistessero due fiumi di cui uno navigabile, con l'acqua che scorre a
incontrarsi ai piedi di una città, adagiata in mezzo a
sette colli.
I quaranta
gradi ci impediscono
di girare troppo, ma
abbastanza per accorgersi
della bellezza: case scure,
portoni in legno,
il Teatro Rendano che
conserva la magia
di un antico senso
dell'arte. Di fronte
al bar Renzelli
c'è ancora un bottaio
che lavora sull'uscio,
ho visto qualche vecchia drogheria e
c'è un negozio che
vende solo spaghi e
cordami senza vetrina.
Si potrebbe correre il
rischio di tornare a
sentire gli odori,
a vedere i gesti,
le passioni del vivere
quotidiano tra i
vicoli di una
città. Mi dicono
che c'è il problema
se pedonalizzare o
no, e su questa
diatriba si blocca
la politica del tornare
a riabitare il centro
storico. Nella mia
città Ancona solo per
pedonalizzare un corso
è successo il finimondo
perché nonostante l'abbondanza
di mezzi pubblici
c'era il pericolo
di non arrivare
in macchina davanti al
negozio. In questo
discorso sembra stare
al centro il commerciale
e chi può permetterselo.
E di solito il commerciale viene portato anche a soluzione, si fanno negozi nei
centri storici per convincere la gente a ritornare o per attirare i turisti. Gli
anziani che vedo
camminare tra le
vie qua si arrampicano
su quelle strade anche
con quaranta gradi a
piedi, perché le
sanno, perché il
corpo si è formato
lì, le pietre e
le pendenze ne hanno
composto la tempra.
Il loro abitare si è formato su quelle pendenze, senza preoccuparsi della
comodità del pianeggiante, ma imparando a conviverci. Lo spianare e il fare
arrivare le macchine e lo shopping sembra essere la grande rivoluzione.
Di certo comprendo che il sud
naturalmente pianeggiante alleggerisce,
l'orizzonte è a
portata di mano
e anche solo mentalmente
puoi immaginare di
prendere una bici
o le gambe e
arrivare da qualche
parte neanche in troppo
tempo. Le strade
in salita, la conformazione
a curva del territorio
di questo sud richiedono
un altro spirito,
un' altra forza, quasi un'ostinazione
vitale che riconosco
negli amici che vivono
qua.
Penso che il sud sia potente, che le
persone che lo abitano hanno una potenza che quasi mi turba. Questo sud mi fa
sentire spesso molliccia, con le ossature più fragili, mi fanno paura le strade
troppo in salita con le case e le macchine appese. A Cosenza gli amici che
incontro mi fanno pensare a una comunità sparsa retta da un filo invisibile e
necessario. I movimenti sono pensati, ad ogni spostamento di macchina si
chiamano le persone che si conoscono per vedere se hanno bisogno di qualcosa,
di un passaggio, per spartire i costi e la fatica perché si sa che sono tutti
come noi, come me, squattrinati e comunque “costretti” ad andare e venire per
sopravvivere un po'. Un bell'esempio di come si resiste in questi luoghi
oltrepassando l'accidia e l'individualismo sfrenato.
Presentiamo il libro a Radio Ciroma,
una radio libera e indipendente sorta alla fine degli anni Ottanta. Leggo dal
racconto di Paride Leporace: «Dal sud il sentire radiofonico di Ciroma si
oppone al vedere televisivo. L’autodeterminazione produttiva del soggetto
intellettuale collettivo è ricco di esperienze. Volti, sensi e corpi che ancora
amano, ridono, combattono. Da quei microfoni senti ancora l’elogio della
“suprissata” (ottimo salame calabrese) e il rap di Marcos, Vivaldi, un servizio
in diretta su un corteo, una corrispondenza da Padova, l’intervento da radio
Gap, i Sepultura, la registrazione di Piperno che commenta l’ammainamento della
bandiera rossa sul Cremlino. Per quelli che sono andati via e per quelli che
verranno il sogno di continuare a tendere la mano verso l’orizzonte
dell’utopia. Sperimentazione sociale, riutilizzo della tecnica di scarto. Senza
profitto e contro la lebbra del potere. Sui 105.700 sempre pronti all’esodo e
al conflitto attraverso le ali della libera frequenza di radio Ciroma». Entrare
dentro a quel luogo è un abbraccio d'altri tempi. La porta è accanto agli scavi
archeologici: vicino ai resti antichi i vuoti in legno del presepe natalizio e
la scala immobile a fianco. Francesco Febbraio, il dottore, ci lancia le chiavi
dalla finestra. Entriamo da una scala ripida e stretta, alle pareti vecchi
manifesti dei CCCP. È la prima volta che entro in una radio ed è subito amore.
Il dottore ci rasserena e ha inizio un dialogo vero che tocca la terra, il sud,
l'essere contadini oggi. Ci raccontiamo, ci interroghiamo, alla fine ci
facciamo una foto e siamo felici.
All'uscita mi incuriosisce una vetrina sulla
piazza ed entriamo
in un negozio del Lanificio Leo. Ci accoglie Alessia e ci
racconta la storia del Lanificio a Soveria Mannelli, guardando
le trame di stoffa appese sento una sintonia a pelle. Il progetto
è il riutilizzo
di vecchi macchinari,
anche dell'ottocento di quella che è stata la
prima impresa tessile di
Calabria. C'è quel
cercare di mantenere
vivo un anello con
la maestria del passato
e allo stesso tempo
stare nell'oggi, con
gli occhi strabici,
coscienti che il
fare tessuti in quel
modo è un atto
culturale e sociale,
arrabattandosi perché quella
ricchezza possa anche
essere economica. È
l'inizio di un piccolo sodalizio, le regaliamo una copia di Storie Terragne, la
rivederemo alla presentazione che l'ha già letto tutto e scatta il gioco delle
sintonie possibili, che ti fa sembrare che è ancora fattibile, nonostante le
sette ore di treno, percorrere strade comuni, est-etiche.
Sfuggiamo al delirio cittadino del
Boulevard lungofiume, che avevo già visto l'anno scorso: un serpentone di bar
attaccati l'uno all'altro, di nuovo questa illusione che il meglio è la cosa
più facile. Perché valorizzare la vita sociale di un centro storico, proponendo
situazione diverse da raggiungere a piedi quando si può mettere su un centro
commerciale della birra e del panino a cielo aperto?
La movida commerciale che sostituisce
un vuoto di senso, qui come a Lecce.
Andiamo a visitare i paesi vicini: San
Fili e Rende.
La strada per San Fili è immersa nel
verde con strade appoggiate nel vuoto, il paese è costruito su una costa di
monte. Mi piacciono i paesi, contengono ancora il senso del limite, è il
paesaggio che lo decide e salvaguardia dallo scempio edilizio. San Francesco di
Paola estatico a braccia aperte sta sulla soglia del paese. Qua l'acqua scorre
buona e fresca dalla montagna, nei balconi le taniche per farne scorta.
Maddalena mi racconta che i giovani rimasti sono pochi, che nonostante tutto
c'è un piccolo teatro che funziona bene.
Ridiscendendo e risalendo arriviamo a
Rende Paese, da non confondere con Rende nuova, qui le cronologie cambiano i
connotati all'abitare.
Mi spiegano che prima c'era il comune
a Rende, poi hanno tolto tutto, per trasportarlo nella parte nuova e col comune
se ne sono andati anche i bar. Attualmente Rende è un gioiellino di paese con
un balcone grande pieno di panchine che guardano alle colline, una zona solo
residenziale dove al massimo si viene per mangiare in uno dei buoni ristoranti
presenti. Salvo la famiglia rom che vive all'entrata del paese e che ha piantato
i pomodori sulla rotonda di fronte e la signora che riempie le bottiglie alla
fontana e ci saluta ridendo, stralci di vita.
La domenica mattina risalgo a
prenderci un caffè e a comprare il giornale, ma non trovo né un'edicola né un
bar aperto, solo i ristoranti. Trovo assurdo che un paese così bello, ben
tenuto sia vuoto quando la gente sta appoggiata alle scale di cemento della
città nuova. Questo paradosso mi provoca una certa rabbia. Sbraito che
forse bisognerebbe occupare le case,
farci un centro culturale, riportare le persone a rivivere quello che viene
considerato vecchio. So che è facile dirlo quando non ci si vive, so che sto
parlando di sacrificarsi; una volta lo si faceva spaccandosi la schiena per
portare qualcosa in tavola, a noi tocca farlo per conservare qualche speranza,
senza risvolti economici, solo ostinazioni passionali, che tentiamo di far
diventare collettive.
Il mio dialogo amoroso con il
paesaggio e con chi ancora lo abita raggiunge l'apice a Pianette
di San Marco Argentano,
lì vado a conoscere
Benito e Maria.
Allontanarsi dalla città
fa respirare l'udito e
a toccare terra mi
sento meno straniera.
Mi ritrovo a
casa intorno alla tavola
da pranzo. Lì è
come se il corpo
diventasse bussola,
non importa cosa so,
cosa ho capito o
cosa penso di aver
capito, ora è
il corpo che conduce. Le
mani scoprono un pane
diverso, più chiaro del
pugliese, meno arioso
all'interno e con
la crosta che ha la forma
di un fazzoletto
che avvolge la mollica,
lembo di grano.
Benito mi intervista
e se la ride,
mi insegna che qua
le zucchine sono cucuzze.
Maria tira fuori dei
piatti coperti dal frigo e
scopre tre tesori.
«Questo è tutto
del nostro campo», precisa
Benito.
Zucchine tonde, dolci,
grigliate e marinate,
peperoni al forno senza
pelle e poi la
rosa marina, una salsa
che si scioglie
in bocca fantastica:
peperoncino e un
trito di paranza, a cui si possono aggiungere
origano e cipolla. Penso che c'è
dentro la Calabria:
la terra che punge
e il mare, un
connubio che in
questa salsa si
fa bellezza.
Il cibo continua
ad avere in sé
la magia del raccontare
i luoghi più di
molto altro.
Dopo pranzo ci
sediamo fuori nella
veranda profumata,
ci sono attimi di
silenzio, mi sento
di nuovo tutta. C'è
prezzemolo e basilico
dentro a bidoni
di alluminio e vecchi
secchi di vernice, i
gattini che tentano di succhiare il latte dal cane, due oche maschi che
starnazzano in una specie di danza perfettamente simmetrica.
«L'altro anno di questi
tempi l'albicocco era
pienissimo!».
Gli alberi hanno produttività alterne,
c'è un tempo per ogni cosa: c'è quello di dare i frutti e quello del non fare.
Tempi sacri, che a riconoscerli si eviterebbe frutti vuoti di senso. Penso che
come alberi ci si dovrebbe occupare delle cose della “cultura”, con la
cognizione della terra e dei tempi, coscienti che non occorre fare per fare.
Metterci l'amore occorrerebbe, quello
vero, quotidiano, sano, quello che respiro a Contrada Vallone, dove diamo vita
a una serata intima tra cibo, parole e segni e all'incontro tra i due sud.
Quando arrivano il resto degli amici
pugliesi facciamo un pranzo buonissimo in cui i sapori si mescolano e noi con
loro. Approdiamo a una contaminazione di umori, forse questo attaccamento a
ritrovarsi alla tavola è prova della crisi che ci ingoia o semplicemente
bisogno di riconoscimento fisico, carnale, semplice.
Il vino rosato per la serata ce lo
offrono Ida e Vincenzo, i proprietari di casa. Il signor Vincenzo coltiva
l'orto elegantissimo con i pantaloni e la camicia grigia e un cappello dello
stesso colore. Ci parlo durante la serata, lo trovo seduto accucciato come un
ragazzino su una panca di legno da muratura. Ha visto un pezzo di spettacolo,
le “Storie Terragne” nel suo cortile, mi fa i complimenti, mi dice che una
volta durante la candelora si andava in giro mascherati per le case, recitando
stornelli e chiedendo del cibo, poi la sera ci si riuniva tutti e si faceva
festa con quello che si era raggranellato. Provo a dirgli che più o meno è
quello che facciamo anche noi ora, lui sorride e mi dice che l'importante è
migliorarsi ogni giorno. Lo fa con quegli occhi a mandorla, troppo grandi per
il suo viso minuto.
Penso ai ragazzi del Libero Teatro, a
Francesco che fa il giornalista e s'è emozionato alla presentazione del libro,
ad Alessia del Lanificio Leo, a Benito e Maria, Vincenzo e Ida, Letizia che ha
cucinato felice con noi tutto il giorno, Armando che ha definito le storie
terragne “militanza silenziosa” e che in bici partirà diretto a un festival
rock indipendente in Sicilia, ai racconti che m'hanno lasciato le persone di aziende
che devo conoscere dove fanno il vino buono e in piccole quantità, al
ristorantino a Rende dove dovrei andare perché ha la cura del cibo al centro.
Il tutto disegna una trama futura che
ancora non conosciamo, ma sappiamo che c'ha il cuore dentro e vale la pena
seguirla.
Sono convinta che il lavoro culturale
in questo momento ha senso se è pratiche da scambiare, mani da riconnettere al
paesaggio.
Credo che i sud dovrebbero costituire
una cellula particolare di r-esistenza artistica, artigiana, terragna, per
ridarsi senso e sopravvivere meglio, per non perdere il patrimonio di sapere
materiale perché difficilmente riusciremo ad essere liberi se non sappiamo più
filare, cucinare, piantare, saldare, tessere. Magari così domani i nostri corpi
torneranno a stare in linea con i canneti, gli alberi, le ciliege, le balle di
fieno.
Dice Vito Teti nell'introduzione a Il
senso dei luoghi: «Allora ti rendi conto che capire significa anche avere idee,
progetti, voglia d sentirsi parte, di non sentirsi di passaggio, in viaggio.
Quei marinai e quei contadini che ti hanno aperto il loro cuore e la loro casa,
quegli uomini che hanno giocato a camuffarsi perché non hanno capito le tue
intenzioni, quei giovani che cercano grotte e ti aspettano per mangiare
insieme, tutte quelle figure di un'umanità che ti accoglie e ti dice
arrivederci, sperando davvero di rincontrarti, puoi non incontrarla più, ma la
ricorderai sempre, te la porti dentro, con un senso di rimorso, con nostalgia,
con un sentimento di inadeguatezza. La scrittura è un luogo non separabile dai
luoghi abitati o attraversati».
Racconto uscito il 30 giugno su CalabriaOra e il 7 luglio nelle Pagine de Il paese nuovo http://www.ilpaesenuovo.it/2013/07/07/07072013-pagine-periodico-di-cronache-culture-e-riflessione-politica/