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venerdì 26 luglio 2013

DA SUD A SUD. Cronologia Sentimentale di un viaggio nelle Calabrie



Cosenza. Sguardi di Gianfranco Donadio. http://www.impressionimeridiane.com/



Non ho viaggiato in Calabria giacché ne immagino essercene molte dentro la stessa.
Ho viaggiato dentro e fuori me nel paesaggio di un altro sud. Nella prefazione alla rivista Caffè Greco dell'ottobre 1980 così scriveva Antonio Verri: «Tu prendi la parola Sud per esempio, cerca di infilartela lettore nelle orecchie, quindi cacciala dal naso, poi passala negli occhi e dopo falla uscire dalla bocca. Se non ti basta, prendi un bel po' di pane (se duro è ancora meglio) e pomodoro e condiscilo col Sud, o se vuoi, infila un dolce Sud in tasca e dimenticatelo per qualche tempo.»
Così lo dico il sud lasciando che m'attraversi, che esca masticato, digerito, incompreso, intenso, ferito, generoso.
Il viaggio ha in potenza la possibilità di spaesamento, non è detto che accada, questa volta mi è successo. Forse perché non viaggiavo sola da un po', sicuramente perché già dal viaggio in treno vengo provocata e le stesse provocazioni le ho sentite poi nelle persone che ho incontrato: c'è uno strattonamento nelle viscere di questo sud che si avverte in maniera più forte che in altri luoghi.
Da Lecce a Cosenza sono sette ore e tre cambi: Brindisi, Taranto, Sibari. Tre collegamenti al giorno e poi basta. Accanto a me una ragazza è partita da Lecce verso Napoli, quasi otto ore.
Da sud a sud è complicato, perché nord sud si comprende ma sud sud sembra da pazzi o disperati. Rischio di perdere il treno a Brindisi perché inghiandita da una specie di falena colorata, a metà tra il giorno e la notte. È entrata nel vagone e tentava di uscire dall'intercapedine del finestrino. Mentre pensavo di alzarmi per liberarla ho capito che ero arrivata, sette minuti, la paura di perdere già il primo cambio. Arrivo al sedile in tempo con una leggera nausea. A Taranto c'è il bus sostitutivo, sembra sostituisca già da mesi un treno fantasma. Il bus attraversa le viscere del mostro: puzza, budelli svuotati di palazzi, la distesa indecente dei cilindri d'alluminio, qualcuno dovrebbe pagare per ognuno di quei conati lasciati senza senso ad arrugginire, qualcuno dovrebbe pagare il fatto di togliere il respiro. La prima fermata del viaggio-processione è Chiatona, un grumo di villette tutte diverse, una sorta di villaggio surreale tra pini marittimi, sembra che ognuno ci si è costruito la casa a sua immagine e somiglianza, chi voleva la baita l'ha fatta, chi la villa stile americano, pure. Ginosa Marina, Metaponto, Policoro, Rocca Imperiale, Roseto Capo Spulico, Amendolara Oriolo, Trebisacce, Sibari. Ho letto che ci sono le terme, alla stazione c'è solo sudore. Il bar è chiuso e se sei donna non sfuggi allo sguardo di nessun uomo che passi o stia fermo. Vengo colta da un furoreeviratorio. Raggiungo l'apice con il capostazione che nella saletta del distributore automatico parla a cinque centimetri di distanza a una ragazzina che per non guardarlo in faccia gli risponde fissando l'i-phone. Vorrei aprirle il finestrino, ma arriva il treno.
Da Sibari a Cosenza mi riconcilio col paesaggio: balle tonde di fieno, vigne collinari, ulivi in salita, alberi da frutta, pesche credo, sento una familiarità con le colline di casa mia. Mi rilasso e penso che più in là c'è la Sila, i boschi. Ci sono stata l'anno scorso a casa di un'amica e mi ha provocato delle fitte. Le montagne me lo fanno, c'è un ombrosità che mi turba, le sento pareti le montagne a volte muraglie difficili da scalfire, ingorghi emotivi, durezze antiche.
Queste colline invece che pure se non lo vedi sai che conducono al mare mi distendono, mi cambiano il ritmo dei pensieri. Sono in un altro sud bagnato da due mari, un altro pezzo di zolla staccatasi da quel grumo di Pangea, qualcuno mi racconterà in questi giorni che la Pangea stava dove ora è Africa, come se lì c'era l'origine, il cuore e poi ciascun pezzo si è allontanato.
Penso che chi si è allontanato di più ha perso maggiormente il cuore.
Alla stazione di Castiglione Cosentino approdo all'abbraccio della mia amica Maddalena. Subito le contratture d'inizio viaggio si fanno più lievi. Mi faccio coccolare da Contrada Vallone, un piccolo paradiso verde con una luce speciale al tramonto. Lì Francesco e il signor Vincenzo fanno l'orto attorno casa. Faccio conoscenza con l'uva spina che ha delle bacche trasparenti e tonde, piccoli palloni aerostatici tra il giallo e il rosato, raccolgo i fiori secchi che cadono da un albero, mi meraviglio davanti all'esotismo della passiflora. La sera c'è la luna su e le lucciole giù. Sento che tutto questo mi cura e cura in particolare le paranoie del pensiero, relativizza le inquietudini, come se tutto tornasse al posto giusto non più l'essere umano, io, al centro.
Appena tocco la città mi torna quell'agitazione sottopelle: ho in testa il voler capire, voler vedere, dover scrivere e quest'ansia da prestazione di solito non aiuta la tessitura, ho bisogno di vivere prima, stendere fili, solo stare, ascoltare, immaginare, ma i pensieri si sovrappongono veloci e non riesco a fermarli.
Cosenza non si lascia prendere dal mio sguardo, non riesco ad immaginarne la forma, mi sembra enorme, simile a se stessa. Mi sono persa più volte nei miei nodi e spesso mi si è allappato il linguaggio.
La Cosenza nuova è una ferita nel paesaggio, una specie di lama che trancia la campagna intorno: uno stradone enorme la spezza, chi ci fa jogging ai bordi non sembra preoccuparsene. Fanno da cornice palazzoni brutti, inutilmente alti, spesso disabitati e invenduti.
Esempio non unico dell'urbanizzazione sfrenata che ha svuotato la città vecchia con l'illusione della nuova fatta di centri commerciali, casinò, mega hotel. Sono convinta che vivere dentro certi paesaggi cambi la forma del corpo, se è vero che c'era tutta campagna con il borgo vecchio allora c'erano altri esseri umani con altre posture. Il paesaggio è un corpo che forma quello umano. Quello che lo sguardo vede, i passi che si fanno sul basolato o sul cemento, l'aria che entra dal naso, credo che questo comporti spaesamenti e mutazioni corporee.
Finito il delirio grigio con colori improbabili lo sguardo si apre, le pupille tornano a respirare: c'è il ponte con i due fiumi il Crati e il Busento che si incontrano lì dove si dice ci sia il tesoro di Alarico, nessuno l'ha ancora trovato. Forse il tesoro era proprio che esistessero due fiumi di cui uno navigabile, con l'acqua che scorre a incontrarsi ai piedi di una città, adagiata in mezzo a sette colli.
I quaranta gradi ci impediscono di girare troppo, ma abbastanza per accorgersi della bellezza: case scure, portoni in legno, il Teatro Rendano che conserva la magia di un antico senso dell'arte. Di fronte al bar Renzelli c'è ancora un bottaio che lavora sull'uscio, ho visto qualche vecchia drogheria e c'è un negozio che vende solo spaghi e cordami senza vetrina. Si potrebbe correre il rischio di tornare a sentire gli odori, a vedere i gesti, le passioni del vivere quotidiano tra i vicoli di una città. Mi dicono che c'è il problema se pedonalizzare o no, e su questa diatriba si blocca la politica del tornare a riabitare il centro storico. Nella mia città Ancona solo per pedonalizzare un corso è successo il finimondo perché nonostante l'abbondanza di mezzi pubblici c'era il pericolo di non arrivare in macchina davanti al negozio. In questo discorso sembra stare al centro il commerciale e chi può permetterselo. E di solito il commerciale viene portato anche a soluzione, si fanno negozi nei centri storici per convincere la gente a ritornare o per attirare i turisti. Gli anziani che vedo camminare tra le vie qua si arrampicano su quelle strade anche con quaranta gradi a piedi, perché le sanno, perché il corpo si è formato lì, le pietre e le pendenze ne hanno composto la tempra. Il loro abitare si è formato su quelle pendenze, senza preoccuparsi della comodità del pianeggiante, ma imparando a conviverci. Lo spianare e il fare arrivare le macchine e lo shopping sembra essere la grande rivoluzione.
Di certo comprendo che il sud naturalmente pianeggiante alleggerisce, l'orizzonte è a portata di mano e anche solo mentalmente puoi immaginare di prendere una bici o le gambe e arrivare da qualche parte neanche in troppo tempo. Le strade in salita, la conformazione a curva del territorio di questo sud richiedono un altro spirito, un' altra forza, quasi un'ostinazione vitale che riconosco negli amici che vivono qua.
Penso che il sud sia potente, che le persone che lo abitano hanno una potenza che quasi mi turba. Questo sud mi fa sentire spesso molliccia, con le ossature più fragili, mi fanno paura le strade troppo in salita con le case e le macchine appese. A Cosenza gli amici che incontro mi fanno pensare a una comunità sparsa retta da un filo invisibile e necessario. I movimenti sono pensati, ad ogni spostamento di macchina si chiamano le persone che si conoscono per vedere se hanno bisogno di qualcosa, di un passaggio, per spartire i costi e la fatica perché si sa che sono tutti come noi, come me, squattrinati e comunque “costretti” ad andare e venire per sopravvivere un po'. Un bell'esempio di come si resiste in questi luoghi oltrepassando l'accidia e l'individualismo sfrenato.
Presentiamo il libro a Radio Ciroma, una radio libera e indipendente sorta alla fine degli anni Ottanta. Leggo dal racconto di Paride Leporace: «Dal sud il sentire radiofonico di Ciroma si oppone al vedere televisivo. L’autodeterminazione produttiva del soggetto intellettuale collettivo è ricco di esperienze. Volti, sensi e corpi che ancora amano, ridono, combattono. Da quei microfoni senti ancora l’elogio della “suprissata” (ottimo salame calabrese) e il rap di Marcos, Vivaldi, un servizio in diretta su un corteo, una corrispondenza da Padova, l’intervento da radio Gap, i Sepultura, la registrazione di Piperno che commenta l’ammainamento della bandiera rossa sul Cremlino. Per quelli che sono andati via e per quelli che verranno il sogno di continuare a tendere la mano verso l’orizzonte dell’utopia. Sperimentazione sociale, riutilizzo della tecnica di scarto. Senza profitto e contro la lebbra del potere. Sui 105.700 sempre pronti all’esodo e al conflitto attraverso le ali della libera frequenza di radio Ciroma». Entrare dentro a quel luogo è un abbraccio d'altri tempi. La porta è accanto agli scavi archeologici: vicino ai resti antichi i vuoti in legno del presepe natalizio e la scala immobile a fianco. Francesco Febbraio, il dottore, ci lancia le chiavi dalla finestra. Entriamo da una scala ripida e stretta, alle pareti vecchi manifesti dei CCCP. È la prima volta che entro in una radio ed è subito amore. Il dottore ci rasserena e ha inizio un dialogo vero che tocca la terra, il sud, l'essere contadini oggi. Ci raccontiamo, ci interroghiamo, alla fine ci facciamo una foto e siamo felici.
All'uscita mi incuriosisce una vetrina sulla piazza ed entriamo in un negozio del Lanificio Leo. Ci accoglie Alessia e ci racconta la storia del Lanificio a Soveria Mannelli, guardando le trame di stoffa appese sento una sintonia a pelle. Il progetto è il riutilizzo di vecchi macchinari, anche dell'ottocento di quella che è stata la prima impresa tessile di Calabria. C'è quel cercare di mantenere vivo un anello con la maestria del passato e allo stesso tempo stare nell'oggi, con gli occhi strabici, coscienti che il fare tessuti in quel modo è un atto culturale e sociale, arrabattandosi perché quella ricchezza possa anche essere economica. È l'inizio di un piccolo sodalizio, le regaliamo una copia di Storie Terragne, la rivederemo alla presentazione che l'ha già letto tutto e scatta il gioco delle sintonie possibili, che ti fa sembrare che è ancora fattibile, nonostante le sette ore di treno, percorrere strade comuni, est-etiche.
Sfuggiamo al delirio cittadino del Boulevard lungofiume, che avevo già visto l'anno scorso: un serpentone di bar attaccati l'uno all'altro, di nuovo questa illusione che il meglio è la cosa più facile. Perché valorizzare la vita sociale di un centro storico, proponendo situazione diverse da raggiungere a piedi quando si può mettere su un centro commerciale della birra e del panino a cielo aperto?
La movida commerciale che sostituisce un vuoto di senso, qui come a Lecce.
Andiamo a visitare i paesi vicini: San Fili e Rende.
La strada per San Fili è immersa nel verde con strade appoggiate nel vuoto, il paese è costruito su una costa di monte. Mi piacciono i paesi, contengono ancora il senso del limite, è il paesaggio che lo decide e salvaguardia dallo scempio edilizio. San Francesco di Paola estatico a braccia aperte sta sulla soglia del paese. Qua l'acqua scorre buona e fresca dalla montagna, nei balconi le taniche per farne scorta. Maddalena mi racconta che i giovani rimasti sono pochi, che nonostante tutto c'è un piccolo teatro che funziona bene.
Ridiscendendo e risalendo arriviamo a Rende Paese, da non confondere con Rende nuova, qui le cronologie cambiano i connotati all'abitare.
Mi spiegano che prima c'era il comune a Rende, poi hanno tolto tutto, per trasportarlo nella parte nuova e col comune se ne sono andati anche i bar. Attualmente Rende è un gioiellino di paese con un balcone grande pieno di panchine che guardano alle colline, una zona solo residenziale dove al massimo si viene per mangiare in uno dei buoni ristoranti presenti. Salvo la famiglia rom che vive all'entrata del paese e che ha piantato i pomodori sulla rotonda di fronte e la signora che riempie le bottiglie alla fontana e ci saluta ridendo, stralci di vita.
La domenica mattina risalgo a prenderci un caffè e a comprare il giornale, ma non trovo né un'edicola né un bar aperto, solo i ristoranti. Trovo assurdo che un paese così bello, ben tenuto sia vuoto quando la gente sta appoggiata alle scale di cemento della città nuova. Questo paradosso mi provoca una certa rabbia. Sbraito che forse  bisognerebbe occupare le case, farci un centro culturale, riportare le persone a rivivere quello che viene considerato vecchio. So che è facile dirlo quando non ci si vive, so che sto parlando di sacrificarsi; una volta lo si faceva spaccandosi la schiena per portare qualcosa in tavola, a noi tocca farlo per conservare qualche speranza, senza risvolti economici, solo ostinazioni passionali, che tentiamo di far diventare collettive.
Il mio dialogo amoroso con il paesaggio e con chi ancora lo abita raggiunge l'apice a Pianette di San Marco Argentano, lì vado a conoscere Benito e Maria.
Allontanarsi dalla città fa respirare l'udito e a toccare terra mi sento meno straniera.
Mi ritrovo a casa intorno alla tavola da pranzo. è come se il corpo diventasse bussola, non importa cosa so, cosa ho capito o cosa penso di aver capito, ora è il corpo che conduce. Le mani scoprono un pane diverso, più chiaro del pugliese, meno arioso all'interno e con la crosta che ha la forma di un fazzoletto che avvolge la mollica, lembo di grano.
Benito mi intervista e se la ride, mi insegna che qua le zucchine sono cucuzze. Maria tira fuori dei piatti coperti dal frigo e scopre tre tesori. «Questo è tutto del nostro campo», precisa Benito.
Zucchine tonde, dolci, grigliate e marinate, peperoni al forno senza pelle e poi la rosa marina, una salsa che si scioglie in bocca fantastica: peperoncino e un trito di paranza, a cui si possono aggiungere origano e cipolla. Penso che c'è dentro la Calabria: la terra che punge e il mare, un connubio che in questa salsa si fa bellezza.
Il cibo continua ad avere in la magia del raccontare i luoghi più di molto altro.
Dopo pranzo ci sediamo fuori nella veranda profumata, ci sono attimi di silenzio, mi sento di nuovo tutta. C'è prezzemolo e basilico dentro a bidoni di alluminio e vecchi secchi di vernice, i gattini che tentano di succhiare il latte dal cane, due oche maschi che starnazzano in una specie di danza perfettamente simmetrica.
«L'altro anno di questi tempi l'albicocco era pienissimo!».
Gli alberi hanno produttività alterne, c'è un tempo per ogni cosa: c'è quello di dare i frutti e quello del non fare. Tempi sacri, che a riconoscerli si eviterebbe frutti vuoti di senso. Penso che come alberi ci si dovrebbe occupare delle cose della “cultura”, con la cognizione della terra e dei tempi, coscienti che non occorre fare per fare.
Metterci l'amore occorrerebbe, quello vero, quotidiano, sano, quello che respiro a Contrada Vallone, dove diamo vita a una serata intima tra cibo, parole e segni e all'incontro tra i due sud.
Quando arrivano il resto degli amici pugliesi facciamo un pranzo buonissimo in cui i sapori si mescolano e noi con loro. Approdiamo a una contaminazione di umori, forse questo attaccamento a ritrovarsi alla tavola è prova della crisi che ci ingoia o semplicemente bisogno di riconoscimento fisico, carnale, semplice.
Il vino rosato per la serata ce lo offrono Ida e Vincenzo, i proprietari di casa. Il signor Vincenzo coltiva l'orto elegantissimo con i pantaloni e la camicia grigia e un cappello dello stesso colore. Ci parlo durante la serata, lo trovo seduto accucciato come un ragazzino su una panca di legno da muratura. Ha visto un pezzo di spettacolo, le “Storie Terragne” nel suo cortile, mi fa i complimenti, mi dice che una volta durante la candelora si andava in giro mascherati per le case, recitando stornelli e chiedendo del cibo, poi la sera ci si riuniva tutti e si faceva festa con quello che si era raggranellato. Provo a dirgli che più o meno è quello che facciamo anche noi ora, lui sorride e mi dice che l'importante è migliorarsi ogni giorno. Lo fa con quegli occhi a mandorla, troppo grandi per il suo viso minuto.
Penso ai ragazzi del Libero Teatro, a Francesco che fa il giornalista e s'è emozionato alla presentazione del libro, ad Alessia del Lanificio Leo, a Benito e Maria, Vincenzo e Ida, Letizia che ha cucinato felice con noi tutto il giorno, Armando che ha definito le storie terragne “militanza silenziosa” e che in bici partirà diretto a un festival rock indipendente in Sicilia, ai racconti che m'hanno lasciato le persone di aziende che devo conoscere dove fanno il vino buono e in piccole quantità, al ristorantino a Rende dove dovrei andare perché ha la cura del cibo al centro.
Il tutto disegna una trama futura che ancora non conosciamo, ma sappiamo che c'ha il cuore dentro e vale la pena seguirla.
Sono convinta che il lavoro culturale in questo momento ha senso se è pratiche da scambiare, mani da riconnettere al paesaggio.
Credo che i sud dovrebbero costituire una cellula particolare di r-esistenza artistica, artigiana, terragna, per ridarsi senso e sopravvivere meglio, per non perdere il patrimonio di sapere materiale perché difficilmente riusciremo ad essere liberi se non sappiamo più filare, cucinare, piantare, saldare, tessere. Magari così domani i nostri corpi torneranno a stare in linea con i canneti, gli alberi, le ciliege, le balle di fieno.
Dice Vito Teti nell'introduzione a Il senso dei luoghi: «Allora ti rendi conto che capire significa anche avere idee, progetti, voglia d sentirsi parte, di non sentirsi di passaggio, in viaggio. Quei marinai e quei contadini che ti hanno aperto il loro cuore e la loro casa, quegli uomini che hanno giocato a camuffarsi perché non hanno capito le tue intenzioni, quei giovani che cercano grotte e ti aspettano per mangiare insieme, tutte quelle figure di un'umanità che ti accoglie e ti dice arrivederci, sperando davvero di rincontrarti, puoi non incontrarla più, ma la ricorderai sempre, te la porti dentro, con un senso di rimorso, con nostalgia, con un sentimento di inadeguatezza. La scrittura è un luogo non separabile dai luoghi abitati o attraversati».


Racconto uscito il 30 giugno su CalabriaOra e il 7 luglio nelle Pagine de Il paese nuovo http://www.ilpaesenuovo.it/2013/07/07/07072013-pagine-periodico-di-cronache-culture-e-riflessione-politica/