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venerdì 18 febbraio 2011

Andata e Ritorno (alias Città in-visibili)



Nessun approdo è tale senza un allontanamento e un ritorno.
Può essere breve ma è il livello di straniamento che conta.
Meglio se il viaggio di ritorno è tormentato, nervoso, imprevedibilmente spossante.
Novembre. Belgio. Un'amica che vive lì come occasione per esplorare un paese che avevo dimenticato nella mia geografia mentale.
A Gent i palazzi del centro sembrano di pasta frolla e cannella. Perfetti, allineati, ti verrebbe quasi voglia di metterci la lingua. Così come le vetrine di dolci, colorate, design alimentare invitante.
Salici che piangono nel lungofiume, foglie grosse e gialle che ridono in mezzo alla strada.
Gent, l'ecologica, la 100% bio, la vegetariana. Più di settanta posti bio descritti in una mappa eco, green che ti accompagna a fare colazione, pranzo, cena, la spesa, la vita sociale.
Mercati bellissimi con merci esposte come fossero dipinti: colori, forme armoniosi, accostati con maestria.
Perfetto,
impeccabile.
Rigido.
Fa freddo a Gent. un freddo completo: vento, pioggia, mani gelate. Quel freddo che rompe le stecche degli ombrelli e ammala le sere. Sole raro che non basta ad asciugare la pioggia che riempie scarpe, cappotto, ossa, ma almeno consola.
Gent dove senza fiammingo non puoi neanche leggere le indicazioni dei lavori in corso,
e per me che le parole disegnano la geografia dei luoghi è un piccolo dramma.
Gent, che non riesci a fiutare, che non dà indizi di sé.
Gent che alle otto di sera le piazze sono vuote e ritrovi la vita dentro ai pub ripieni di fumo e sudore.
Gent inespugnabile dietro alle tendine di pizzo delle case a piano terra.

“Tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino a tal punto da evitare ogni contatto; che la amino com'era prima di loro e con canocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia per foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la loro assenza.”

E poi un piccolo inserto a Bruxelles dove l'anima metropolitana spinge ai lati le perfezione, dove si può ritrovare sé stessi guardando Magritte o rovistando alla chiusura del mercato dell'usato in piazza, alla ricerca di chincaglierie da salvare dalla scopa degli spazzini, tra bancarellai rumeni, o forse turchi o maghrebini, anziani con carrelli della spesa carichi, un signore nero seduto su una pila di vestiti da macero che sfoglia placido un'enciclopedia.
E dove il vento che arruffa buste di plastica diventa quasi poetico.
Bruxelles dove il pastis costa poco, Bruxelles un po' francese.
Bruxelles tra piste di skateboard, sottopassaggi pieni di murales e studi di design.
Bruxelles con le salite, attraversata da genti diverse, con gli odori che escono dalle case.

“Anche le città credono d'essere opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro mura.
D'una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.”


E quando puoi solo balbettare domande senza il tempo di cercare risposte, arriva il ritorno.
L'andarsene ha assunto i contorni di una fuga necessaria, si è insediato caparbio il desiderio di riapprodare a un qualche sud.
Ma tra me e il sud della mente sono apparsi con una velocità disarmante ostacoli imprevedibili: “identità” smarrita, aerei persi, l'italia malefica dei treni, una donna che decide di rendersi invisibile proprio sotto il mio treno, a metà ritorno. Surreale. Questa pipa non è una pipa.
Le carte si mescolano: pensavo di volare e atterrare in poche ore e invece mi hanno costretto a un passaggio lento a raso terra, che ha allungato i tempi, scombinato i piani.
Sono nell'ultimo treno, quello definitivo, poche ore e il ri-approdo si compierà.
L'anima è ancora inquieta, dolorante, in fibrillazione, a cercare nessi, sensi, a balbettare risposte di fronte al groviglio di perchè.
Guardo fuori, mi appare lo spettacolo degli ulivi al tramonto, inchinati dal vento a rendere omaggio a quella terra rossa come la richiede il sud della mente. Tronchi maestosi mi sfilano davanti, umani.
Cerco di guardarli uno ad uno, ma si allontanano, mi rimane nelle mani il desiderio di abbracciarli, immaginarne le storie tra le pieghe del legno e l'incrocio dei rami.
Finalmente arrivo.
Respiro.
La strada a quest'ora emana ancora il calore del giorno.
Posticipo l'arrivo a casa, vado dai miei amici, mi faccio accogliere, ne ho bisogno.
Per la prima mi volta mi portano nella loro terrazza.
Da qui vedo tutta la città, le porte antiche che la proteggono, in lontananza i moderni mulini a vento, sotto intorno e dentro il disegno scomposto dei tetti, le scale che non portano da nessuna parte. Terrazze appese a muri porosi, umidi, anneriti.
Esco, ho voglia di stare fuori, togliermi il cappotto e un po' anche di ballare.
Mi ammalerò poi, ma si sa ogni ri-approdo lascia ferite.
Da lasciare, con calma, asciugare al sole.

“Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto, ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Passerà mai? Non c'è linguaggio, senza inganno.”


Libri letti da quando sono a sud…
“La mia casa è dove sono” di Igiaba Scego