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lunedì 16 giugno 2014

In-definito corpo

Testo scritto per "L'osservatore in cammino"edito per il Festival pe(n)sa differente 2014



In definitiva non c’è niente di definito,

l’indefinito conduce al movimento,

porta al cambiamento

definito è il niente

la mente che non sente

la morte quando arrende.



Se mi chiedono se lavoro la risposta è indefinita, se mi chiedono cosa faccio anche.

È difficile sostenersi quando non si sta nelle definizioni, lo è ancora di più quando al contrario dentro e nel corso dei giorni si ha dimestichezza con la forma molle di sè, ne si conoscono i confini, seppur mutevoli.

So che cos’è per me lavoro, lo costruisco da anni e da poco ho anche imparato da me stessa dove voglio mettere le energie, il tempo, in cosa voglio crescere, cosa voglio imparare, dunque si direbbe che io sia definita, eppure mi tocca sempre tergiversare davanti alla domande secche e anti-materiche delle persone. Chiedermi: «Lavori adesso?» è una domanda fuori dal tempo, non ha sostanza, è una domanda che aleggia su un livello fumoso, senza corpo. Allora la risposta diventa una serie di proposizioni, di specificazioni, si apre la vasta gamma delle possibili risposte. A volte semplicemente dico un no, definito, secco, lo dico pure con una certa spocchia, tiè, no non lavoro; ancora più bello è quando decido di affermare che sono contro il lavoro, che poi è vero, ma vai a spiegare…allora a volte non spiego e lo butto lì, una bella pietra.

Quando lo faccio e se lo faccio è perché ho voglia di provocare qualcosa, metto un definito lì dove non c’è, per giocare alle differenze e vedere poi cosa accade, ma è un gioco pietra su pietra che spesso rimane duro, non costruisce ponti molli o scale a dondolo, di solito genera il successivo silenzio della relazione.

Occorrerebbero domande più leggere per consentire risposte a capriola, proposizioni friabili.



***



.La massa corposa di me, quella che subisce mutazioni continue, a seconda dei vestiti, del momento, del ciclo, della capigliatura, della stagione è la bussola della definizione, dell’unica possibile; è lei che risente e risponde, lei sa, lei sì, mi indica: sbruffa, s’arraffa, deride, sussulta, grida, definisce il mio sentire. Santa massa corporea, perché fai da àncora alla mente, perché salvi dalla complessità per forza e ovunque… e santa materia altrui!

La materia delle cose, santa e ineludibile: il ghiaccio del marmo di una panchina e invece il calduccio nel sedere che dà il legno, la liberazione dei piedi dai calzetti d’estate, la pastosità del cioccolato sotto la bocca, la goduria della schiena sull’erba, il battesimo dell’acqua gelida di maggio.

L’indefinito si arresta sulle cose, sulla materia sensibile di cui è fatto ogni momento, a volersene accorgere.



***



Una delle mie migliori letture di sempre è stata “Poetica del diverso” di Edouard Glissant in cui lo scrittore e antropologo creolo rivendica per tutti il diritto all’opacità, parlando di identità e appartenenze.

L’opacità lungi dall’essere un pappone senza senso è una gustosa mistura di sostanze.

A Martano, i monaci Cistercensi producono un liquore giallo e trasparente che chiamano Gocce imperiali, D’Annunzio le descriveva come opale iridescenza: qui due consistenze materiche definite (in questo caso liquore a novanta gradi e acqua nella mistura base, con infinite variazioni: caffè, amaro, ghiaccio) collidendo ne formano un’altra che ne contiene entrambe, seppur in altra forma. Le due trasparenze inglobandosi diventano poetica opacità.

L’opacità salva il pensiero dal rischio di considerarsi assoluto, mono-originato, uni-direzionato, l’opacità rende possibile l’abitare più stanze interne, l’essere originati da vari luoghi, da vari cuori, da differenti paesaggi, senza che questo faccia sfumare quel paesaggio, quel luogo, quel cuore, quell’interno. È una mescolanza che mantiene il senso delle parti, ma facendole incontrare genera il nuovo.

Riflettevo pochi giorni fa, guardando i miei parenti, di come una delle più fortunate evoluzioni della specie sia stato l’uscire dal sistema endogamico: quanta fortuna c’è nel mescolarsi a chi è diverso, a chi non appartiene alle stesse abitudini mentali e familiari, alle medesime idiosincrasìe, è garanzia di evoluzione e cambiamento costante, perché da ogni sprofondamento tra diversi uscirà qualcosa di inaspettato, un indefinito che prenderà la forma di qualcosa che prima non c’è mai stato.

L’opacità è nodosa, non pulita, complicata, tiene insieme apparenti opposizioni, disturba la lucidità e la rigidità, smuove le linee che congiungono i punti, rende possibili in ordini sparso: le traversate, i trans, le maschere, le lumache, il pomodoro nero, la pelle color cannella, l’ironia, il salto con l’asta, il suminagashi, il sushi, la pasta alla siciliana, il mare dalla punta di Leuca, la pizza con l’ananas, il colore viola, la bossa nova, la fase rem, la chantilly, la lingua, la musica, l’arte, l’ombelico…

In definitiva, quando l’indefinito è generato da due o più diversi materici affari, oggetti, accadimenti, quando è con questi giocato, rischiato, allora diventa ciò che salva, conduce al movimento, all’”oltre”, allo sgomento.


per leggere tutta la rivista qui:  http://issuu.com/mmmotus/docs/l_osservatore_in_cammino

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