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lunedì 21 novembre 2011

Lettera sul "Conflitto Palmieri"




Caro Direttore,
Ho scelto per molto tempo il bar di fronte al convitto come luogo delle mie stasi scrutatorie nella città. L'ho scelto soprattutto nelle ore di non movida: al tramonto, prima che il caos esagitato interrompesse tutto. Dopo il fatto accaduto a Ilias Miah non riesco più a starci.
E' chiaro che il silenzio e l'anonimato di una telefonata alla polizia non bastano e creano pesanti co-responsabilità.
Ho amato sedermi nel bar più sgarrupato della movida leccese dove i tavolini non sono patinati e nessun gadget ammicca al consumatore e dove per quanto mi riguarda trovo un buon anice, a km0,
nella piazza degli sfattoni, dei punkabbestia col cane, di tutta quella popolazione che si rifugia nell'ombra del colonnato.
Mi piaceva vederne il mutamento tra il pomeriggio e la sera.
Grazie alla biblioteca provinciale nel pomeriggio è abitata da studenti di varie età, anche scuole superiori che stazionano dentro e fuori, che ripetono la lezione tra gli scalini e comprano patatine al bar, la sera con l'accensioni dei lampioni e l'inizio della notte dopo che i rondoni hanno fatto i loro giri impazziti al tramonto, si assiste a un brulichio in costante aumento.
L'ho amata perché nelle sere più dense della movida rimaneva uno dei pochi posti non commerciali in cui ci si poteva sedere senza consumare o consumando qualcosa portato da casa. Nessun diritto di proprietà sulle bevande.
Ho bivaccato per lunghe ore nei tavolini, ho visto passare molte persone, spesso conoscenti, in pochi si sono fermati, complice a mio avviso l'atmosfera da “baraccio”.
Il punto è che non stavo seduta lì solo per avere il mio anice buono e si, a basso costo, ma perché davanti avevo una Piazza. Un luogo pubblico, non protetto, non commerciale.
Ho fatto bellissime discussioni con le mie amiche, ho persino fatto riunioni e più di una volta ho fatto chiacchiere molto belle con sconosciuti. Me ne ricordo una con un ragazzo africano che si è seduto, io e la mia amica eravamo tristi e lui ci ha raccontato come faceva lui a superare la tristezza.
Un'altra volta un ragazzo punk, nero dai capelli, ai vestiti, alle occhiaie, ci ha convinto a suonare se ne sentivamo l'esigenza, perché il momento giusto è quello in cui si sente la necessità di fare.
Nello stesso luogo ho letto e scritto poesie. Dialoghi e azioni non convenzionali per un luogo così, additato.
Ora, mi sono sempre chiesta, se persone “non convenzionali”, persone che hanno voglia di discutere, di parlare, di leggere, di scrivere provassero a vivere la piazza, credo che qualcosa cambierebbe.
Le logiche mafiose, da capetti di quartiere, le violenze gratuite, il silenzio, che più mi fa orrore, dei molti intorno forse potrebbero essere scalfite da uno stare “altro”.
Non sopporto “la faccia pulita e le orecchie piene di sapone” di chi snobba, tira su la testa per non guardare, non sopporto l'intellettualismo borghese che condanna un luogo perché l'alcool costa poco e girano droghe. Sento tutto questo come ipocrisia mal celata.
Sogno che il Convitto Palmieri non sia un bar, ma torni ad essere Piazza, di cui il bar è solo una piccolissima parte. Riprendersi quel luogo in quanto piazza, ovvero luogo dell'esercizio non funzionale dello stare insieme, sarebbe il segnale più grande, pratica poeticamente politica di abitare la città.
“Uno spazio disincarnato, è quello che oggi ci tocca e per fortuna che ci sono strani nuovi soggetti a ricordarci ogni tanto che la città è anche il luogo del suonare, del mendicare, dello stare fermi, dello stare a guardare”. (Franco La Cecla)
Da quegli “strani” soggetti, invece di tentare di eliminarli con un esercizio violento di corpi frustrati, potremmo addirittura imparare una postura gentile del corpo nello spazio.
Allora cancelli e telecamere non sarebbero neanche pensabili, il popolo della piazza si rivolterebbe, e forse non sarebbe necessario neanche e per forza l'evento culturale, perché ci sarebbe il quotidiano prendersi cura di un luogo pubblico, solo appoggiandoci il sedere sopra e magari chiacchierando di sogni e tristezze.
Allora potrei anche trovare il coraggio di tornare a sedermi di nuovo senza sentire quel silenzio anonimo così assordante.


Senza perdere la tenerezza. Mino De Santis, mentre piove a Sternatìa

Foto tratta dalla pagina Fb di Mino https://www.facebook.com/abcdefghilm1234567890



E' domenica. Siamo a Sternatìa. Stasera c'è la festa del peperoncino, non la solita sagra estiva, ma una piccola manifestazione, pochi banchini nelle due vie principali del centro ognuno con una diversa specialità culinaria, ma tutti a base di peperoncino. Siamo qui per ascoltare Mino De Santis.
Dopo i cantori di Zollino il presentatore annuncia Mino, lui imbraccia la chitarra si siede e inizia a suonare. Dopo le prime due canzoni, canta Arbulu te ulie. “Siccome non so quanto potrò cantare, faccio questa perché mi sembra importante in questo momento. C'è qualcuno in questi giorni che vorrebbe espiantare ulivi per metterci il fotovoltaico”. Una canzone necessaria. Intorno intanto timidamente qualcuno si siede, qualcun altro se ne va in cerca di pizzica, un bambino si piazza davanti al faccione di Mino e sorride dondolando, mentre lui canta.
A un certo punto inizia a piovere, prima poche gocce e poi di più. Alcuni se ne vanno, altri irriducibili prendono la sedia e si mettono sotto al gazebo, dietro a Mino che canta.
Lui si guarda intorno un po' spaesato e va avanti. Iniziamo ad avvicinarci tutti. Si decide di girare le casse all'interno, ci addossiamo a Mino che ha giusto lo spazio per la sedia e la chitarra.
La serata cambia forma.
Non c'è più il vuoto davanti all'artista, ma un gruppetto di gente che sfida l'acqua e ascolta.
Le facce più belle sono quelle che quasi gli stanno in collo. Signori anziani con la pelle segnata, che ammaliati ascoltano questo cantore anomalo, menestrello irriverente che dice senza aver paura di dire.
Uno di loro se ne sta con la faccia seria e scura sotto a un cappello da baseball, in giacca e pantaloni pesanti, annuisce e batte le mani convinto, ad ogni fine di pezzo. All'arrivo di alcuni versi in molti sorridono, scattano applausi nel mezzo della canzone, gesti di approvazione. Vicino al signore scuro, c'è Uccio, Mino lo conosce. “Questa te la dedico Uccio, mi ricordo che ti piacque”. Lui si toglie il cappello e ascolta. A un certo punto arriva un ragazzo dal viso sorridente e dolce, un bonaccio, con un flauto di legno che non suona, ma che appoggia solo alla bocca sdentata. “Questa è una canzone sulla libertà, che costa...”, dice Mino. “E quanto costa?” chiede lui. “Tanto”. Arriva da dietro una voce: “Ma tu ce l'hai già la libertà!”. Non so dire se sia stato il mio sguardo artefatto da quella situazione bella e surreale, ma giurerei di aver visto le sue labbra cantare i versi di Mino: “La libertà è un boccone bollente, finché ddafridda t'ha catutu nu tente e n'immensa casa per chi casa non ha, tutta la piazza della città”.
Alla fine della canzone Mino è felice e la piazza è una casa.
Le facce che stanno attorno hanno tutta l'aria di sentirsi raccontate dalle sue parole.
“Forse state scomodi in piedi, magari faccio l'ultima”. Ne sono susseguite altre e poi altre, a richiesta oppure no. Nessuno se ne è più andato, qualcun altro si è avvicinato. Il signore e la moglie dapprima titubanti alla fine applaudivano al ritmo della chitarra. Una ragazza giovane che faceva parte dello staff della festa si è avvicinata sorridente, guardava gli altri contenta, in piedi. E' tornata persino la signora che cercava disperatamente la pizzica.
Quelli della seconda fila e oltre non vedevano la faccia di Mino, né le mani grosse sui tasti della chitarra, ma è come se leggessero le note nelle espressioni degli altri, spartiti di carne che per una volta non si è temuto di guardare, magari di sottecchi.
Stavamo tutti  là stretti come si sta attorno a un fuoco che canta, ad accorgerci che era bastata una pioggia a far diventare le parole di uno quelle di tutti.
La gente di Sternatìa ha abbracciato Mino per una sera e lui ha ricambiato.
Il vento dal basso che sa scompigliare, senza perdere la tenerezza.

MaMa