PANCHINE
Specchia è piena di panchine e tutte
all’ora che sta in mezzo al pomeriggio sono occupate.
Ci stanno i vecchi, tutti uomini.
L’ossatura di ferro è delle fonderie di
Fidenza, la carne è di legno rugoso, come gli uomini seduti sopra.
Si apostrofano da un lato all’altro
della via Umberto primo, con una cadenza che sembra provata già mille volte, la
gestualità ha il ritmo delle nuvole.
E’ ancora l’ora del silenzio tanto che
da sotto il campanile si sente il ticchettio dell’orologio che apostrofa i
secondi.
Nella terrazza del castello c’è ancora
solo vento, lampadine da giorno e una ragazza che gioca con due cappelli ai
bordi di un pezzo di Salento stranamente verde.
Mi siedo in una panchina della piazza
che qua, solo qua, non ha rughe. Ha la scomodità delle cose non consumate.
Si siedono accanto due signore hanno in
mano il programma della Festa.
“E’ la Festa
del cinema del reale…ci sono tutte cose reali”, dice una delle due.
A Specchia si mutano rughe in panchine e
panchine in rughe.
Ph. Alessia Rollo |
TITOLI DI CODA
Sento la musica dei
titoli di coda, mi alzo di scatto, sento che devo entrare. Attraverso al
contrario l’atrio del castello, voglio capire le facce, guardare tutti i paia
di occhi.
Vedo una ragazza con la
testa tra le mani consolata da un altra, c’è uno strano silenzio, qualcuno
grida, una specie di risata isterica molti abbassano lo sguardo e si guardano
intorno con occhi sgranati. E’ un’onda di energia, la sento, mi lascio
attraversare, ho un brivido.
Sento dire: “Dovrebbero
vietarlo anziché proiettarlo”.
Dentro alla bellezza di
un paese pieno di panchine, dentro una festa del cinema che racconta la realtà
in questo momento c’è un fegato pesante, un dolore nel costato, una lama
affondata, le viscere infuocate.
L’happy hour è in
terrazza ma in pochi raggiungono l’ora felice, rialzarsi è un’operazione
complicata, non c’è amore, la follia è malata, la crisi è una serpe da cui non
si riesce ad uscire.
Non l’ho visto Diaz di
Daniele Vicari, ma ne ho visto i resti nelle facce e nel vuoto della sala al
buio.
Si corre un rischio ad
abitare una visione.
La notte va
attraversata, quando il paese dorme e ci sono mura, porte, vuoti, non si sente
russare o fare l’amore, nessun litigio o traccia di alba.
Noi l’abbiamo cercata
dentro a un fornaio, che è un po’ quella cosa di arrivare allo sfinimento, a
consumare il buio per scrollarsero di dosso.
La luce è accesa,
l’odore di pane è nell’aria. Loro sono vivi, urlano, si gridano cose, da
lontano con quella luce al neon mi sembrano gesti di una danza fatta da corpi
grossi ma sicuri. Non si curano di noi, ci mostrano quel quadro ripetuto ogni
santo giorno, come fosse un dono, un pezzo di vita spicciola, sudata che
produce nutrimento mentre tutto il paese dorme.
Affondo i denti dentro
una focaccia ripiena, mi sembra la cosa più buona mai mangiata.
Sento i titoli di coda,
mentre il cielo leggermente schiarisce.
Non l’ho visto Diaz di
Daniele Vicari, ma me lo sono portato addosso come una fine da attraversare, un
dolore che non si può fare a meno di abitare.
NORMAN-PAESE
In
fondo alla discesa c’è il tramonto. Un paese in fondo è una scultura, pietra
scolpita.
Giro
l’angolo, nell’aria odore di calzoni fritti, attraverso la soglia, entro in un
cortile. La custode è un’anima in pietra, avvolta da righe sottili, le mani
sulle ginocchia. E’ una sirena e ride.
Se
immagino il ghigno ritrovo quello della signora di ieri. Ero appena entrata
nella mia casetta provvisoria a Specchia e sento la risata goduriosa di una signora
anziana, a metà tra strega e fata. Ho pensato che fosse il marito a farla
ridere. Anche Patience deve aver riso molto.
Entro
e vado diretta verso di lei. Credo mi abbia chiamato. Sta sotto a una delle
piccole grotte, mini tempietti votivi.
Guardo
la dea e lei guarda me. Ha faccia di sole e pancia di luna. Seni e ventre
consumati, levigati dal troppo dare, dal troppo amore, alla dea non servono
mani perchè tutto il suo corpo lo è. Una protuberanza di carne che avvolge,
abbraccia. Un unico centro, ombelico profondo. Se sei pulito e ti avvicini
senti l’aria uscire, da lì respira la dea e mi guarda.
Oggi
ho percorso uno dei tanti vicoli interni ed è successo che ogni persona che ho
incontrato mi ha guardato e salutato. Non ricordo il nome del vicolo, ma sarebbe
bello se da domani si chiamasse la Via dello Sguardo o del Saluto, una strada
per anime gentili.
Lei
sta sdraiata, potrebbe stare così anche su una panchina sotto la luna. Ha il
corpo stellato, tra lei e la materia di cui è fatta non c’è neanche un filo di
vento, combaciano, si baciano, fanno effusioni continue. Oracolo di corpo
pietroso che tutto osserva senza neanche spostare un dito del piede perchè
tutto contiene.
Ho
incontrato Raffaele, il commesso del negozio in cui faccio la spesa. E’ di
Specchia, ha la faccia di uno che sta bene e ha l’odore di quei profumi da uomo
in bottiglie di alluminio opaco. Mi dice che Specchia sta sdraiata su una
doppia collina, per quello respira così tanto.
Sotto
la terza grotta c’è una testa di Sibilla. Ha segni sul viso d’ottone per ogni
lacrima versata, ogni goccia di sudore, ciascun pensiero accartocciato. Parla
la testa con tutto il fiato che ha in corpo e racconta con orgoglio di ogni
ruga conquistata.
Di
giorno la signora della piazzetta sta seduta nella soglia interna di casa, di
fronte ha l’intera esposizione delle rughe maschili, tutte orgogliosamente in
fila. Quando arriva la notte si sposta sulla soglia esterna e chiama un’amica.
Il buio le dà coraggio.
Guardiani
delle tre dame di pietra due serafini, corpi di legno, assi tra la terra e il
cielo. Uno ha l’oro in testa, sul cuore e sul sesso. Da lì si sparpagliano i
colori che gli si stratificano addosso. L’altro ha una pulsione sessuale
fortissima che bilancia tendendo braccia a cielo. Tanto sopra, così sotto. A
guardia di tutti al centro della stanza c’è lui, ogni singolo frammento di
corpo è isola, paese, trama di pelle. La faccia di luna sembra triste, ma
trattasi di fremito. Tutto il corpo è percosso: sale dai piedi, radici,
fondamenta conficcati in una terra di mare e con un fiato sanguigno, una linea
precisa, netta, squarcio, vagina, arriva agli occhi e va oltre, non può fare a
meno di tornare cielo terroso, infinito e basta.
Ogni
giorno il paese sta conficcato nelle radici di sé, pietre, strati. Ogni giorno
si bagna di una luce speciale, aperta, invasiva, totale, ripone le vite degli
altri dentro di sé, li regge. Poi il paese diventa notte, fa calare il
silenzio, addormenta i fortunati, fa sognare gli eroi.
Ogni
giorno il paese sta in terra e regge con i muri il cielo.