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venerdì 3 agosto 2012

Panchine, titoli di coda, norman


PANCHINE
Specchia è piena di panchine e tutte all’ora che sta in mezzo al pomeriggio sono occupate.
Ci stanno i vecchi, tutti uomini.
L’ossatura di ferro è delle fonderie di Fidenza, la carne è di legno rugoso, come gli uomini seduti sopra.
Si apostrofano da un lato all’altro della via Umberto primo, con una cadenza che sembra provata già mille volte, la gestualità ha il ritmo delle nuvole.
E’ ancora l’ora del silenzio tanto che da sotto il campanile si sente il ticchettio dell’orologio che apostrofa i secondi.
Nella terrazza del castello c’è ancora solo vento, lampadine da giorno e una ragazza che gioca con due cappelli ai bordi di un pezzo di Salento stranamente verde.
Mi siedo in una panchina della piazza che qua, solo qua, non ha rughe. Ha la scomodità delle cose non consumate.
Si siedono accanto due signore hanno in mano il programma della Festa.
E’ la Festa del cinema del reale…ci sono tutte cose reali”, dice una delle due.
A Specchia si mutano rughe in panchine e panchine in rughe.

Ph. Alessia Rollo

 TITOLI DI CODA

Sento la musica dei titoli di coda, mi alzo di scatto, sento che devo entrare. Attraverso al contrario l’atrio del castello, voglio capire le facce, guardare tutti i paia di occhi.
Vedo una ragazza con la testa tra le mani consolata da un altra, c’è uno strano silenzio, qualcuno grida, una specie di risata isterica molti abbassano lo sguardo e si guardano intorno con occhi sgranati. E’ un’onda di energia, la sento, mi lascio attraversare, ho un brivido.
Sento dire: “Dovrebbero vietarlo anziché proiettarlo”.
Dentro alla bellezza di un paese pieno di panchine, dentro una festa del cinema che racconta la realtà in questo momento c’è un fegato pesante, un dolore nel costato, una lama affondata, le viscere infuocate.
L’happy hour è in terrazza ma in pochi raggiungono l’ora felice, rialzarsi è un’operazione complicata, non c’è amore, la follia è malata, la crisi è una serpe da cui non si riesce ad uscire.
Non l’ho visto Diaz di Daniele Vicari, ma ne ho visto i resti nelle facce e nel vuoto della sala al buio.
Si corre un rischio ad abitare una visione.
La notte va attraversata, quando il paese dorme e ci sono mura, porte, vuoti, non si sente russare o fare l’amore, nessun litigio o traccia di alba.
Noi l’abbiamo cercata dentro a un fornaio, che è un po’ quella cosa di arrivare allo sfinimento, a consumare il buio per scrollarsero di dosso.
La luce è accesa, l’odore di pane è nell’aria. Loro sono vivi, urlano, si gridano cose, da lontano con quella luce al neon mi sembrano gesti di una danza fatta da corpi grossi ma sicuri. Non si curano di noi, ci mostrano quel quadro ripetuto ogni santo giorno, come fosse un dono, un pezzo di vita spicciola, sudata che produce nutrimento mentre tutto il paese dorme.
Affondo i denti dentro una focaccia ripiena, mi sembra la cosa più buona mai mangiata.
Sento i titoli di coda, mentre il cielo leggermente schiarisce.
Non l’ho visto Diaz di Daniele Vicari, ma me lo sono portato addosso come una fine da attraversare, un dolore che non si può fare a meno di abitare.

 NORMAN-PAESE
In fondo alla discesa c’è il tramonto. Un paese in fondo è una scultura, pietra scolpita.
Giro l’angolo, nell’aria odore di calzoni fritti, attraverso la soglia, entro in un cortile. La custode è un’anima in pietra, avvolta da righe sottili, le mani sulle ginocchia. E’ una sirena e ride.
Se immagino il ghigno ritrovo quello della signora di ieri. Ero appena entrata nella mia casetta provvisoria a Specchia e sento la risata goduriosa di una signora anziana, a metà tra strega e fata. Ho pensato che fosse il marito a farla ridere. Anche Patience deve aver riso molto.
Entro e vado diretta verso di lei. Credo mi abbia chiamato. Sta sotto a una delle piccole grotte, mini tempietti votivi.
Guardo la dea e lei guarda me. Ha faccia di sole e pancia di luna. Seni e ventre consumati, levigati dal troppo dare, dal troppo amore, alla dea non servono mani perchè tutto il suo corpo lo è. Una protuberanza di carne che avvolge, abbraccia. Un unico centro, ombelico profondo. Se sei pulito e ti avvicini senti l’aria uscire, da lì respira la dea e mi guarda.
Oggi ho percorso uno dei tanti vicoli interni ed è successo che ogni persona che ho incontrato mi ha guardato e salutato. Non ricordo il nome del vicolo, ma sarebbe bello se da domani si chiamasse la Via dello Sguardo o del Saluto, una strada per anime gentili.
Lei sta sdraiata, potrebbe stare così anche su una panchina sotto la luna. Ha il corpo stellato, tra lei e la materia di cui è fatta non c’è neanche un filo di vento, combaciano, si baciano, fanno effusioni continue. Oracolo di corpo pietroso che tutto osserva senza neanche spostare un dito del piede perchè tutto contiene.
Ho incontrato Raffaele, il commesso del negozio in cui faccio la spesa. E’ di Specchia, ha la faccia di uno che sta bene e ha l’odore di quei profumi da uomo in bottiglie di alluminio opaco. Mi dice che Specchia sta sdraiata su una doppia collina, per quello respira così tanto.
Sotto la terza grotta c’è una testa di Sibilla. Ha segni sul viso d’ottone per ogni lacrima versata, ogni goccia di sudore, ciascun pensiero accartocciato. Parla la testa con tutto il fiato che ha in corpo e racconta con orgoglio di ogni ruga conquistata.
Di giorno la signora della piazzetta sta seduta nella soglia interna di casa, di fronte ha l’intera esposizione delle rughe maschili, tutte orgogliosamente in fila. Quando arriva la notte si sposta sulla soglia esterna e chiama un’amica. Il buio le dà coraggio.
Guardiani delle tre dame di pietra due serafini, corpi di legno, assi tra la terra e il cielo. Uno ha l’oro in testa, sul cuore e sul sesso. Da lì si sparpagliano i colori che gli si stratificano addosso. L’altro ha una pulsione sessuale fortissima che bilancia tendendo braccia a cielo. Tanto sopra, così sotto. A guardia di tutti al centro della stanza c’è lui, ogni singolo frammento di corpo è isola, paese, trama di pelle. La faccia di luna sembra triste, ma trattasi di fremito. Tutto il corpo è percosso: sale dai piedi, radici, fondamenta conficcati in una terra di mare e con un fiato sanguigno, una linea precisa, netta, squarcio, vagina, arriva agli occhi e va oltre, non può fare a meno di tornare cielo terroso, infinito e basta.
Ogni giorno il paese sta conficcato nelle radici di sé, pietre, strati. Ogni giorno si bagna di una luce speciale, aperta, invasiva, totale, ripone le vite degli altri dentro di sé, li regge. Poi il paese diventa notte, fa calare il silenzio, addormenta i fortunati, fa sognare gli eroi.
Ogni giorno il paese sta in terra e regge con i muri il cielo.




ATTRAVERSAMENTI. Cinema del Reale 2012



Ph. Alessia Rollo


Sento il bisogno di mettere giù frasi, come se fosse una post-produzione di parole, guardare cosa ho fatto, cosa è uscito per ricostruire un filo.
Ho capito in questi giorni che chi racconta sta su una soglia, abita una terra di mezzo tra dentro e fuori, soprattutto chi ambisce alla narrazione di una realtà viva, chi vuole raccontarla facendosi  attraversare.
Pensavo al titolo del mio esperimento  e sentivo che attraversare e farsi attraversare non è immediato.
Innanzitutto ci vuole un corpo che sia adatto, una postura aperta, ma centrata che consenta l’incontro, l’imprevisto, l’aria improvvisa che entra negli occhi.
Occorre una perdita di tempo, occorre sapere che spesso per far uscire qualche parola aderente a una porta, a una faccia, a un’espressione si perderà molto tempo a non trovarle affatto.
Bisogna trovare l’ora giusta per camminare e farsi camminare, che spesso è troppo caldo, o uno ha fame, o pensa ad altro o ha mal di stomaco.
A Specchia c’era la Festa del Cinema del Reale e io da così dentro non l’avevo mai vista. Ho avuto bisogno di tempo per perdermici e così trovarla, trovarmi in lei. C’era un occhio che stava nella Festa e l’altro che cercava gli anfratti del paese, ho cercato l’innesto, l’intreccio, ma non sempre i due occhi funzionavano insieme. C’erano dislocazioni, scivolamenti, la difficoltà di stare emotivamente dentro a un tutto per riuscire a raccontarlo dal di dentro, appesa a un fuori.
Sotto la terza grotta c’è una testa di Sibilla. Ha segni sul viso d’ottone per ogni lacrima versata, ogni goccia di sudore, ciascun pensiero accartocciato. Parla la testa con tutto il fiato che ha in corpo e racconta con orgoglio di ogni ruga conquistata.
Di giorno la signora della piazzetta sta seduta nella soglia interna di casa, di fronte ha l’intera esposizione delle rughe maschili, tutte orgogliosamente in fila. Quando arriva la notte si sposta sulla soglia esterna e chiama un’amica. Il buio le dà coraggio.
Ho avuto le visioni più belle guardando dalla terrazza la platea: le facce intente davanti a Jim Morrison sdraiato perso sul palco di un concerto, il palco pieno con lo staff e i premiati che mi sembravano tutte facce belle con un’energia da utopia possibile, le sedie bianche e vuote mentre in alto c’era il pieno di una festa e sotto la visione era finita.
Non l’ho visto Diaz di Daniele Vicari, ma ne ho visto i resti nelle facce e nel vuoto della sala al buio. Si corre un rischio ad abitare una visione. La notte va attraversata, quando il paese dorme e ci sono mura, porte, vuoti, non si sente russare o fare l’amore, nessun litigio o traccia di alba.
Dopo le visioni sono rimasti i corpi a guardarsi ballando, a scoprirsi sudando, che forse è la poesia più vera, quella che non necessita parole, perché si consuma vivendo.
Poi c’è stato il diffondere i fogli di parole nel paese. Paolo Pisanelli mi ha detto più volte che ero troppo discreta e che dovevo osare di più. Allora ho pensato che era vero, ma ho anche pensato che il mio sguardo sulle cose non è urlato, è circolare, “ventrico” perché parte da un ventre arrotondato e fa sfilare le parole in questo ciclo. Ridare al paese le parole che ha suggerito, questa l’idea, ristabilire la circolarità dell’arte, non ridarla al pubblico intellettuale o colto, ma ridarla alla macchina, alla panchina, al cane, alla signora del bar.
Non è stato facile, perché in quei giorni le parole mi uscivano pudiche, aggomitolate, a volte stentate e allora anche il gesto del restituire a volte è stato minimo, nascosto.
Specchia è piena di panchine e tutte all’ora che sta in mezzo al pomeriggio sono occupate.
Ci stanno i vecchi, tutti uomini.
L’ossatura di ferro è delle fonderie di Fidenza, la carne è di legno rugoso, come gli uomini seduti sopra.
Esistono i tempi dell’attraversamento, esiste che la scrittura così come la voglio e la intendo richiede un continuo spostamento di livello: il dentro la pancia, il fuori del paese, il semi dentro di un incontro, una festa di sguardi, di pulsioni, di pensieri.
Se questa Festa del Cinema del Reale fosse un unico filmato, sento che ora lo vorrei rivedere, darci un’altra possibilità di incontro ora che ci siamo conosciuti e ci vogliamo bene. Uscirebbero parole nuove, spaesamenti meno timorosi, gesti e azioni più coraggiose.
“Normalmente la fragilità viene raccontata nello spazio privato, come qualcosa che non deve entrare nello spazio pubblico, nel discorso sociale e politico, in cui bisogna esibire forza ed efficienza. E la piccola rivoluzione, alla quale invito, è invece quella di svelare nella dimensione pubblica le nostre fragilità. Esponendo con coraggio le nostre fratture per primi, qualcun altro farà lo stesso. E queste fragilità nel momento in cui si raccontano diventano forza.” (Franco Arminio)
La mia festa è finita domenica mattina al bar quando per la prima volta mi sono trovata faccia a faccia con Cecilia Mangini. Quando le ho detto che non c’eravamo mai presentate lei mi ha risposto “E perché?”. Aveva la pelle fresca, ogni centimetro di viso una nicchia votiva. Non potevo dirle che ogni giorno me la guardavo molto per vedere che vestito avrebbe messo, come sarebbe salita sul palco, quali parole avrebbe usato, quale giornale letto. Non mi capita spesso, ma Cecilia Mangini mi fa l’effetto di una donna sacra, la forza enorme della fragilità, una cosa che mi è sembrato di poter solo sfiorare.
A volte le parole sembrano ritirarsi davanti alla bellezza, e di nuovo penso che in questo vuoto ci sia la poesia, quella  che non ha autori o autrici, ma solo corpo.