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mercoledì 7 marzo 2012

Antidoti al dolore/1....Poesia di non-mercato



Domenica al non mercato ho portato con me l’animo pesante che ha contraddistinto questi mesi: la percezione del malessere mio e di chi mi sta intorno, la tristezza dei vecchi signori col bastone che fanno la fila tremanti all’ufficio centrale delle poste per ritirare dai libretti i loro risparmi, la neve delle ultime settimane che ha fatto ammalare mia nonna, costretta a un ritiro forzato in casa. Quotidianamente se ti fermi a guardare le facce per strada, se parli con le persone ti arriva uno scuro che entra dentro e fa da specchio al proprio. Un dolore sottile e costante, una delicata e protratta compressione del fiato. La difficoltà in tutto questo di un racconto collettivo, di qualche pratica che salvi, che conduca ad uscire dalla fossa in cui tutti, chi più e chi meno, siamo immersi.
Ecco, tutto questo l’ho portato in quella strana piazza-cortile di via di Pettorano 3. L’ho messo lì in quella poesia minima che cercavo di portare, senza nascondere rabbia e stanchezza. Ho lasciato che il mio corpo e lo sguardo ne portassero il peso. Anti-carnevale del cuore.

Ho pensato molto al fatto che abbiamo dimenticato la quotidiana potenza dell’incontrare le persone al mercato. Ci si andava al mercato per necessità e ogni giorno si finiva per farsi riconoscere e per riconoscere. La gente dietro ai banchi, quella vera, sapeva ascoltare, si prendeva il lusso di osservare. Non c’era il super, ma solo il mini: mini incontri con la scusa della spesa, che poi non era affatto scusa perché si portavano a casa pane, verdura, magari pesce ai tempi d’oro e, in qualche giorno primaverile, persino fiori per recidere il peso dell’inverno.
Al mercato si andava anche per scambiare sapori e saperi, magari una ricetta mescolata a una parola di conforto.
Al mercato non si aveva paura di fare quelle piccole domande, impossibili in un super, agevoli in un mini: «Come mai la cicoria quest’anno è così? », «Sa signora è piovuto poco, la siccità… » e un sapere quotidiano arrivava dalla terra in città così, semplicemente con una frase, un gesto.
Dei miei mercati in una città diversa da questa ricordo l’orgoglio di qualche contadino: «Signora guardi qua ho dell’insalata freschissima!».
Poi la città ha insabbiato sapori e odori, relegato al mercato ortofrutticolo una produzione seriale e industriale, che strozza i piccoli contadini.
Ora il fruttivendolo può giusto vantarsi di scegliere i prodotti più strani, magari un cavolo viola che viene dal Belgio. Lucido e bello come una palla da bowling, dimentico ormai del gusto e della passione dolorante della terra che l’ha nutrito.

Arrivo al non mercato in ritardo, sistemo le mie parole tra i banchi. Toni e Giovanni sono già lì con le loro tavole colorate, le facce segnate e dense.
Mentre sistemo spizzico la puccia che Giovanni ha tagliato a pezzetti per farla assaggiare: un’esperienza indimenticabile. Lui mi vede contenta, me ne taglia metà e me la mette in mano.
La gusto come la colazione più buona, come un dono di cura.
Affido a Toni le parole che ho pensato per lui. Le legge serio, ci pensa e poi sorride: «É bello “asciutto di sole” ». Alle poesie a volte capita di non essere comprese, di rimanere tronche, senza mani, ma Toni ha le mani giuste per comprenderle. Non solo, si fa contagiare e risponde a poesia con poesia:  mi chiederà di scrivergli con la mia calligrafia dei cartelli per la sua “Lacrima di sole. olio extravergine di oliva. Bio”  e “qualcuno creò la dolcezza… crema di mandorle. bio”.
Affido “vino utopico” a Urupia. Saverio mi risponde subito: «Guarda questo! Questo si che è uno slogan! ». Mi indica una bottiglia di grappa autoprodotta la cui etichetta recita: “AgGRAPPAti al sogno”.
Naturare appoggia la frase tra un ramo e le bambole, la signora coi capelli bianchi dei gioielli in Macramè si stupisce che abbia pensato quella frase proprio per lei. E’ orgogliosa, contenta: «Ma quanto sei bella!», mi dice.
A un certo punto vado da Giovanni Pellegrino, ha portato il suo forno per le pizze dell’amico Gianfranco di Urupia. Li guardo e penso ad alta voce: «Voi si che avete la tempra di chi sa stare al mondo, non come noi, smidollati! ».
Alla fine delle pizze Giovanni si avvicina e mi domanda il perché di quella frase. Ci sediamo sui tubi, dopo poco arriva Toni, mi si siedono a fianco. Giovanni mi racconta di come giocava quand’era piccolo, delle corse, della strada, dei cortili in cui bastava un vecchio sull’uscio e anche i bimbi piccoli erano autorizzati a stare fuori, insieme a quelli grandi, non c’erano macchine, al peggio cavalli. Toni mi dice che forse se vedo il buio fuori e perché ce l’ho dentro. Non gli ho mai parlato del buio, ma lui evidentemente lo vede e lo sa nominare. «Sei tu che scegli se far caso a un sorriso oppure no».

I produttori e le artigiane del mercato impastano ogni giorno la loro vita con mani e fatica. Sono lì per vendere il frutto di un lavoro che ciba in maniera sana il corpo e lo adorna, lo veste con cura ecologica. Già questo basterebbe, ma c’è di più.
Sono agenti di una vita in cui anima e corpo sono insieme a soddisfare le necessità quotidiane. Le frasi poetiche che ho dato a ciascuno sono solo una virgola. La poesia è tutta loro e non è retorica, non è preziosa, non ha bisogno di sfoggiarsi o di fare bella figura, non sospetta perché è salda, si muove nel mondo sicura e fiera. Non servono maschere speciali, artefatti concettuali, il concetto è espresso in quella puccia perfetta per il palato, la terra, l’anima.
La bellezza in questo caso non è posticcia, è insita in quei formaggi di pecora, buoni e schietti, impilati in quel modo. Una scultura di passione cagliata che dà semplicemente quello che è.

L’invito allora per tutte e tutti è di fare un salto al non mercato, di andarci a piedi scalzi, senza vestito della domenica, senza orpelli di circostanza. Andarci innanzitutto per necessità. Per farsi cibare il corpo e l’anima, come diritto imprescindibile.
La necessità semplice conduce a gesti puri, azioni non imbellettate, ma belle di natura.
Vendere e comprare quei prodotti o provare il brivido del “dono”, del prendere senza dare in cambio, non saranno allora gesti sterili, ma esercizi di un abitare onesto dei propri desideri, antidoti reali al buio che c’è.
Ci vediamo l’ultima domenica di marzo, a piedi scalzi, per trovare un porto al dolore.

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