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venerdì 3 agosto 2012

ATTRAVERSAMENTI. Cinema del Reale 2012



Ph. Alessia Rollo


Sento il bisogno di mettere giù frasi, come se fosse una post-produzione di parole, guardare cosa ho fatto, cosa è uscito per ricostruire un filo.
Ho capito in questi giorni che chi racconta sta su una soglia, abita una terra di mezzo tra dentro e fuori, soprattutto chi ambisce alla narrazione di una realtà viva, chi vuole raccontarla facendosi  attraversare.
Pensavo al titolo del mio esperimento  e sentivo che attraversare e farsi attraversare non è immediato.
Innanzitutto ci vuole un corpo che sia adatto, una postura aperta, ma centrata che consenta l’incontro, l’imprevisto, l’aria improvvisa che entra negli occhi.
Occorre una perdita di tempo, occorre sapere che spesso per far uscire qualche parola aderente a una porta, a una faccia, a un’espressione si perderà molto tempo a non trovarle affatto.
Bisogna trovare l’ora giusta per camminare e farsi camminare, che spesso è troppo caldo, o uno ha fame, o pensa ad altro o ha mal di stomaco.
A Specchia c’era la Festa del Cinema del Reale e io da così dentro non l’avevo mai vista. Ho avuto bisogno di tempo per perdermici e così trovarla, trovarmi in lei. C’era un occhio che stava nella Festa e l’altro che cercava gli anfratti del paese, ho cercato l’innesto, l’intreccio, ma non sempre i due occhi funzionavano insieme. C’erano dislocazioni, scivolamenti, la difficoltà di stare emotivamente dentro a un tutto per riuscire a raccontarlo dal di dentro, appesa a un fuori.
Sotto la terza grotta c’è una testa di Sibilla. Ha segni sul viso d’ottone per ogni lacrima versata, ogni goccia di sudore, ciascun pensiero accartocciato. Parla la testa con tutto il fiato che ha in corpo e racconta con orgoglio di ogni ruga conquistata.
Di giorno la signora della piazzetta sta seduta nella soglia interna di casa, di fronte ha l’intera esposizione delle rughe maschili, tutte orgogliosamente in fila. Quando arriva la notte si sposta sulla soglia esterna e chiama un’amica. Il buio le dà coraggio.
Ho avuto le visioni più belle guardando dalla terrazza la platea: le facce intente davanti a Jim Morrison sdraiato perso sul palco di un concerto, il palco pieno con lo staff e i premiati che mi sembravano tutte facce belle con un’energia da utopia possibile, le sedie bianche e vuote mentre in alto c’era il pieno di una festa e sotto la visione era finita.
Non l’ho visto Diaz di Daniele Vicari, ma ne ho visto i resti nelle facce e nel vuoto della sala al buio. Si corre un rischio ad abitare una visione. La notte va attraversata, quando il paese dorme e ci sono mura, porte, vuoti, non si sente russare o fare l’amore, nessun litigio o traccia di alba.
Dopo le visioni sono rimasti i corpi a guardarsi ballando, a scoprirsi sudando, che forse è la poesia più vera, quella che non necessita parole, perché si consuma vivendo.
Poi c’è stato il diffondere i fogli di parole nel paese. Paolo Pisanelli mi ha detto più volte che ero troppo discreta e che dovevo osare di più. Allora ho pensato che era vero, ma ho anche pensato che il mio sguardo sulle cose non è urlato, è circolare, “ventrico” perché parte da un ventre arrotondato e fa sfilare le parole in questo ciclo. Ridare al paese le parole che ha suggerito, questa l’idea, ristabilire la circolarità dell’arte, non ridarla al pubblico intellettuale o colto, ma ridarla alla macchina, alla panchina, al cane, alla signora del bar.
Non è stato facile, perché in quei giorni le parole mi uscivano pudiche, aggomitolate, a volte stentate e allora anche il gesto del restituire a volte è stato minimo, nascosto.
Specchia è piena di panchine e tutte all’ora che sta in mezzo al pomeriggio sono occupate.
Ci stanno i vecchi, tutti uomini.
L’ossatura di ferro è delle fonderie di Fidenza, la carne è di legno rugoso, come gli uomini seduti sopra.
Esistono i tempi dell’attraversamento, esiste che la scrittura così come la voglio e la intendo richiede un continuo spostamento di livello: il dentro la pancia, il fuori del paese, il semi dentro di un incontro, una festa di sguardi, di pulsioni, di pensieri.
Se questa Festa del Cinema del Reale fosse un unico filmato, sento che ora lo vorrei rivedere, darci un’altra possibilità di incontro ora che ci siamo conosciuti e ci vogliamo bene. Uscirebbero parole nuove, spaesamenti meno timorosi, gesti e azioni più coraggiose.
“Normalmente la fragilità viene raccontata nello spazio privato, come qualcosa che non deve entrare nello spazio pubblico, nel discorso sociale e politico, in cui bisogna esibire forza ed efficienza. E la piccola rivoluzione, alla quale invito, è invece quella di svelare nella dimensione pubblica le nostre fragilità. Esponendo con coraggio le nostre fratture per primi, qualcun altro farà lo stesso. E queste fragilità nel momento in cui si raccontano diventano forza.” (Franco Arminio)
La mia festa è finita domenica mattina al bar quando per la prima volta mi sono trovata faccia a faccia con Cecilia Mangini. Quando le ho detto che non c’eravamo mai presentate lei mi ha risposto “E perché?”. Aveva la pelle fresca, ogni centimetro di viso una nicchia votiva. Non potevo dirle che ogni giorno me la guardavo molto per vedere che vestito avrebbe messo, come sarebbe salita sul palco, quali parole avrebbe usato, quale giornale letto. Non mi capita spesso, ma Cecilia Mangini mi fa l’effetto di una donna sacra, la forza enorme della fragilità, una cosa che mi è sembrato di poter solo sfiorare.
A volte le parole sembrano ritirarsi davanti alla bellezza, e di nuovo penso che in questo vuoto ci sia la poesia, quella  che non ha autori o autrici, ma solo corpo.

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