Ph. Alessia Rollo |
Sento il bisogno di mettere giù frasi, come se fosse una
post-produzione di parole, guardare cosa ho fatto, cosa è uscito per
ricostruire un filo.
Ho capito in questi giorni che chi racconta sta su una
soglia, abita una terra di mezzo tra dentro e fuori, soprattutto chi ambisce
alla narrazione di una realtà viva, chi vuole raccontarla facendosi attraversare.
Pensavo al titolo del mio esperimento e sentivo che attraversare e farsi
attraversare non è immediato.
Innanzitutto ci vuole un corpo che sia adatto, una postura
aperta, ma centrata che consenta l’incontro, l’imprevisto, l’aria improvvisa
che entra negli occhi.
Occorre una perdita di tempo, occorre sapere che spesso per
far uscire qualche parola aderente a una porta, a una faccia, a un’espressione
si perderà molto tempo a non trovarle affatto.
Bisogna trovare l’ora giusta per camminare e farsi
camminare, che spesso è troppo caldo, o uno ha fame, o pensa ad altro o ha mal
di stomaco.
A Specchia c’era la Festa del Cinema del Reale e io da così
dentro non l’avevo mai vista. Ho avuto bisogno di tempo per perdermici e così
trovarla, trovarmi in lei. C’era un occhio che stava nella Festa e l’altro che
cercava gli anfratti del paese, ho cercato l’innesto, l’intreccio, ma non
sempre i due occhi funzionavano insieme. C’erano dislocazioni, scivolamenti, la
difficoltà di stare emotivamente dentro a un tutto per riuscire a raccontarlo
dal di dentro, appesa a un fuori.
Sotto la terza grotta c’è una testa di
Sibilla. Ha segni sul viso d’ottone per ogni lacrima versata, ogni goccia di sudore,
ciascun pensiero accartocciato. Parla la testa con tutto il fiato che ha in
corpo e racconta con orgoglio di ogni ruga conquistata.
Di giorno la signora della piazzetta sta
seduta nella soglia interna di casa, di fronte ha l’intera esposizione delle
rughe maschili, tutte orgogliosamente in fila. Quando arriva la notte si sposta
sulla soglia esterna e chiama un’amica. Il buio le dà coraggio.
Ho avuto le visioni più belle guardando dalla terrazza la
platea: le facce intente davanti a Jim Morrison sdraiato perso sul palco di un
concerto, il palco pieno con lo staff e i premiati che mi sembravano tutte
facce belle con un’energia da utopia possibile, le sedie bianche e vuote mentre
in alto c’era il pieno di una festa e sotto la visione era finita.
Non l’ho visto Diaz di Daniele Vicari, ma ne ho visto i
resti nelle facce e nel vuoto della sala al buio. Si corre un rischio ad
abitare una visione. La notte va attraversata, quando il paese dorme e ci sono
mura, porte, vuoti, non si sente russare o fare l’amore, nessun litigio o
traccia di alba.
Dopo le visioni sono rimasti i corpi a guardarsi ballando, a
scoprirsi sudando, che forse è la poesia più vera, quella che non necessita
parole, perché si consuma vivendo.
Poi c’è stato il diffondere i fogli di parole nel paese.
Paolo Pisanelli mi ha detto più volte che ero troppo discreta e che dovevo
osare di più. Allora ho pensato che era vero, ma ho anche pensato che il mio
sguardo sulle cose non è urlato, è circolare, “ventrico” perché parte da un
ventre arrotondato e fa sfilare le parole in questo ciclo. Ridare al paese le
parole che ha suggerito, questa l’idea, ristabilire la circolarità dell’arte,
non ridarla al pubblico intellettuale o colto, ma ridarla alla macchina, alla
panchina, al cane, alla signora del bar.
Non è stato facile, perché in quei giorni le parole mi
uscivano pudiche, aggomitolate, a volte stentate e allora anche il gesto del
restituire a volte è stato minimo, nascosto.
Specchia è piena di
panchine e tutte all’ora che sta in mezzo al pomeriggio sono occupate.
Ci stanno i vecchi, tutti
uomini.
L’ossatura di ferro è
delle fonderie di Fidenza, la carne è di legno rugoso, come gli uomini seduti
sopra.
Esistono i tempi dell’attraversamento,
esiste che la scrittura così come la voglio e la intendo richiede un continuo
spostamento di livello: il dentro la pancia, il fuori del paese, il semi dentro
di un incontro, una festa di sguardi, di pulsioni, di pensieri.
Se questa Festa del Cinema del Reale
fosse un unico filmato, sento che ora lo vorrei rivedere, darci un’altra
possibilità di incontro ora che ci siamo conosciuti e ci vogliamo bene.
Uscirebbero parole nuove, spaesamenti meno timorosi, gesti e azioni più
coraggiose.
“Normalmente la fragilità viene raccontata nello spazio privato,
come qualcosa che non deve entrare nello spazio pubblico, nel discorso sociale
e politico, in cui bisogna esibire forza ed efficienza. E la piccola
rivoluzione, alla quale invito, è invece quella di svelare nella dimensione
pubblica le nostre fragilità. Esponendo con coraggio le nostre fratture per
primi, qualcun altro farà lo stesso. E queste fragilità nel momento in cui si
raccontano diventano forza.” (Franco Arminio)
La mia festa è finita domenica mattina al bar quando per la
prima volta mi sono trovata faccia a faccia con Cecilia Mangini. Quando le ho
detto che non c’eravamo mai presentate lei mi ha risposto “E perché?”. Aveva la
pelle fresca, ogni centimetro di viso una nicchia votiva. Non potevo dirle che
ogni giorno me la guardavo molto per vedere che vestito avrebbe messo, come
sarebbe salita sul palco, quali parole avrebbe usato, quale giornale letto. Non
mi capita spesso, ma Cecilia Mangini mi fa l’effetto di una donna sacra, la
forza enorme della fragilità, una cosa che mi è sembrato di poter solo
sfiorare.
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