La prima volta che ho incontrato Maria
Lai è stato attraverso una scritta cucita con ago e filo, in un modo
che concede al filo di rilassarsi, cadere, giocare col suo essere
filo: “Non importa se non capisci segui il ritmo”.
Lavoravo nelle scuole e quella frase mi è entrata dentro, diceva che
l'avrebbe immaginata scritta all'entrata di ogni scuola, di ogni
museo o biblioteca, era il suo sogno.
Ero d'accordo immagino quante vergogne,
giudizi avrebbe evitato, quanta libertà avrebbe regalato a chi
sentiva di avere un ritmo diverso dagli altri. Ho iniziato a cercare
cose su questa donna, alla Biblioteca Provinciale di Lecce hanno
proiettato un documentario su di lei Ansia d'infinito, di Clarita di
Giovanni. Eravamo poche forse solo due, io ho pianto, la mia amica
anche.
Una donna con le parole attaccate alle
mani, delicatezza lucida dello sguardo che trasforma con cura piccola
le cose che tocca.
Maria Lai è morta pochi giorni fa a 93
anni vicino ad Ulassai, il paesino sardo in cui era tornata, dopo
vari anni nel “continente”.
Ho versato lacrime, non mi è mai
successo per qualcuno che non ho mai incontrato, recentemente avevo
pensato che sarebbe stato possibile incontrarla, inserirla in un
progetto di racconto sulle donne e la necessità delle mani. Sentivo
e sento che le sue trame sottili, la sua arte cucita esisteva nelle
mie cose, aveva formato un modo, uno sguardo, un pensiero. Inizio a
pensare che ci sia una profondità femminile non urlata, non
sponsorizzata che genera montagne in luoghi particolari, in cui
spesso nessuno va. Montagne che però altre donne scelgono di
abitare.
Un giorno Maria Lai legò l'intero suo
paese alla montagna, nel 1981, coinvolse con fatica l'intera comunità
perché un nastro lungo ventisei chilometri congiungesse tutte le
case tra di loro e poi al monte; una dichiarazione d'amore, di
attaccamento al paesaggio che in certi privilegiati luoghi dà ancora
forma alle case, porta in seno l'abitare. All'inizio ci furono
conflitti, iniziarono a crederci in dieci, e poi divennero creativi:
composero un nodo tra le case in cui c'era amicizia, attaccarono pani
tradizionali ai nastri nelle case tra cui c'era amore. Poi degli
scalatori in un giorno di festa portarono il filo in cima al monte e
si danzò tutta la notte.
L'idea le viene da una leggenda sarda
di secoli che racconta di una bimba che sale sul monte per portare
del pane ai pastori e scoppia un temporale. Il monte, racconta Maria
Lai è in Sardegna come il lupo in Cappuccetto Rosso: una montagna
che frana pericolosa dove i tuoni rimbombano, lei va e si rifugia in
una grotta dove c'erano altri pastori. A un certo punto si vede
volare un nastro azzurro, la bimba, l'unica portatrice di stupore, lo
segue, gli altri pensano che non ha senso che non vale la pena, la
leggenda racconta che la grotta crollò e la bambina si salvò.
Il nastro azzurro come l'arte che salva
chi è capace di stupore. Ulassai come metafora del mondo che frana.
Non so come si racconta la vita di
un'artista, non ho mai visto una sua opera dal vivo, ma so che l'ho
incontrata.
Ascoltando vari documenti audio e video
compresa un'intervista di Tonino Casula nel 1977 mi convinco che sono
le donne che l'hanno raccontata ad aver avuto la delicatezza di quel
nastro nell'avvicinarsi alla magia, ai sogni e alle visioni di Maria
Lai.
Lavorava con stoffe fili pietre pane
tutte manifestazioni di un rapporto con le cose ancestrale e allo
stesso tempo libero.
Possedeva io credo la magia del
pensiero che si fa arte attaccate alle cose, non posticcia, ma
rasente la terra.
Donna, lottò per essere accettata nei
suoi tre anni di allieva di Arturo Martini negli anni Quaranta a
Venezia, unica donna all'Accademia, racconta del suo rapporto con gli
uomini e con la sua solitudine che bisognerebbe avere compagni
invisibili, amori che lascino libere perché, dice, ci sono persone
che non appartengono a uno, ma all'infinito.
In lei vedo la delicatezza, la
gentilezza, il costruire l'arte con amore, giocando.
Nel 1993 realizza “La scarpata”:
progetta su una scarpata le linee di un dinosauro e un cielo stellato
al centro, e poi un radar che catturasse i raggi del sole, un giorno
una folata di vento terribile sposta degli assi di ferro che erano
stati posizionati a terra, le dicono che avrebbero rimesso tutto a
posto e lei dice di no “Le pietre mi hanno suggerito”.
La montagna aveva parlato. Lei aveva
ascoltato. Fu lasciato nell'opera lo scompiglio del vento.
In un altro episodio racconta che
voleva realizzare dei segni su una roccia di pietra, venne chiamata
una ditta, il patto era che fossero disposti a stare dietro al suo
processo, perché l'opera si fa mentre la fai. Quando gli chiedevano
“Ma lei come fa a decidere che va rifatto tutto?”, lei risponde
che bastava ascoltare il muro, che il muro diceva. “Ma lei ascolta
con gli orecchi il muro?” “Ascolto con gli occhi, anche quando
leggiamo ascoltiamo con gli occhi”.
Antri quadrati segnati nelle rocce da
cui escono le janas, attraverso un libro cucito Maria Lai
ripercorre la strada di queste fate-api che entrano in un mondo di
uomini perché esistano le donne e imparino a filare e a tessere,
esperte della pazienza della filatura e del rigore delle api.
La roccia e il filo, per ridare un
canto femminile a una terra aspra, difficile pietrosa, una ricerca
continua di ammorbidire la roccia senza ammansirla, seguire i venti
senza domarli.
Immagini ritmiche, in cui la materia
segue il ritmo dell'esistente, i fiori sono belli perché hanno un
ritmo. Racconta che quando lasciò Venezia e tornò in Sardegna
travolta da dolori familiari aveva perso tutto, non sapeva se
continuare, il suo maestro diceva che la scultura era morta. Quando
le morì l'ennesimo fratello capì che la vita era breve, che doveva
prendersi il tempo. Una donna piccola, con le rughe in volto, di
salute cagionevole, con una tempra dolce, che ha dato amore ad ogni
manifestazione di quella terra rocciosa: dai rammendi della nonna che
chiamava “scritture”, ai pani delle donne del paese, alle rocce
franose.
Diceva che Ulassai era la metafora del
mondo, sottoposto a frane. Dentro la frana ha ascoltato l'ansia
d'infinito per dare vita Madre Pietra alle storie nascoste, perché
parlassero senza dire del tutto. Dei suoi libri cuciti racconta che
molte pagine non si vogliono far leggere perché contengono segreti,
sono timidi.
L'olio di parole, ripreso da Lorca, è
l'olio dei poeti perché “addolcisce tutti gli attriti, fammi
poeta, fai in modo che le mie parole siano olio, invito ad unirsi, a
stare insieme ed ogni poesia dovrebbe essere un invito a questo”.
L'olio di parole diventa una geografia
raccontata dell'albero d'ulivo, fatto di Sasso, Solco, Sole, Scure,
Sale, la trasposizione in segno e parole di un'alchimia antica, ma
ri-raccontata, riadagiata nella contemporaneità perché ritorni
feconda, concretezza e metafora allo stesso tempo.
Inizio a pensare che venti sotterranei
incontrino anime esposte sulle soglie, col desiderio di atti d'amore
e gentilezza per un'arte che se è, è solo perché è profondamente
intimamente attaccata alla vita e così si mostra, così si espone.
Non è la mostra di sé ma la mostra
vera del discorso di un arte che è creatività appoggiata alle cose.
“L'arte è una concretezza che
contiene un pezzo di universo e quindi ce lo rende afferrabile,
altrimenti ci sfuggirebbe”.
Diceva che voleva che tutte le sue
opere venissero chiuse e aperte con atto notarile solo dopo
cinquant'anni, perché l'arte ha bisogno di tempo per essere guardata
e compresa, sono felice che non l'abbia fatto. La maggior parte delle
sue opere sono esposte nella Stazione d'Arte di Ulassai, una vecchia
stazione ferroviaria a pochi chilometri dal paese, in alto esposta ai
venti, quasi sospesa.
Ho incontrato una maestra senza
incontrarla ed è la Madre dei Venti, della Pietra, del Pane,
dell'Olio, del Filo che lei tiene in mano e continua a farlo. Noi
possiamo riprenderlo e continuare a cucire.
http://www.stazionedellarte.it/
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