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giovedì 22 luglio 2010

Appasud_tre: sulle rondini.

Le vedo da quando sono qui, tre mesi ormai.
So che ci sono, mi provocano, mi fanno prudere le mani, vorrebbero essere scritte, ma finora mi sono ritratta.
Parlare di rondini mi sembra un controsenso al mondo. Un atto di indomita leggerezza in un tempo pesante. Mi occorre uno sforzo interiore per farlo, un esercizio di liberazione temporanea dai fardelli quotidiani.
Parlare di rondini equivale ad ammettere il bisogno di poesia e il desiderio di un cielo, non sacralizzato, ma profanamente vivo, quello che fa perno sui cornicioni dei palazzi e li ossigena.
Forse non mi sarei mai imbarcata in questo pensiero scomodo se qua non fossero così insistenti.
Le ho tenute d’occhio ogni giorno, e ogni giorno pensavo fosse l’ultimo: le credevo annunciatrici di primavera e invece continuavo a vederle anche coi sandali addosso.
E’ difficile ignorarle tanto quanto è difficile fermarsi nel mezzo della strada e alzare gli occhi per guardarle.
Ci si sente un po’ idioti a stare a testa in su, a bloccare il passo, dimenticare la direzione sul selciato e sostituirla con quella del cielo.
Ne ho seguito le tracce in questi mesi, in maniera fintamente distratta, tanto da individuarne atteggiamenti diversi e orari favorevoli.
Durante il giorno sono sporadiche, solitarie, ma diventano sinfoniche nelle ore di confine, quelle di passaggio tra il sogno e la veglia, tra il chiaro e lo scuro e viceversa,
Ogni luogo ne determina poi le traiettorie: le vedi ovunque nella città, ma certe vie ne tracciano il disegno in maniera netta.
Su via Leuca, ad esempio, saltano perpendicolari alla strada, da un tetto a quello di fronte, vanno veloci, parlano la lingua delle correnti, disegnano con le piume nere e la voce stridula qualcosa che mi sfugge, ma che percepisco come vitale, un’eccitazione corale, un ritmo incalzante e preciso, tratti nitidi, elementari, come un carboncino su foglio bianco.
Nei vicoli che si diramano da Piazza Sant’Oronzo sono più sfrontate: si tuffano letteralmente dalla piazza dentro le strettoie dei tetti con fare sicuro e spavaldo, in gruppo, come se conoscessero ogni minimo angolo sgarrupato, ogni intonaco scrostato, come se avessero le esatte misure delle linee dei palazzi, una sorta di coscienza comune nella frenesia del movimento.
Ma il vero spasso è osservarle dall’alto dei tetti, in quei balconi a cielo aperto, come il mio, di cui la città è piena. Qui sono libere dalla costrizione degli edifici, unici ostacoli, ignorati, le antenne. Si lanciano in picchiata fin quasi a sfiorarti la testa. Ne senti chiaramente la folata argentea, decisa, repentina, uno scroscio d’ali all’unisono, che si ripete a più riprese. Ogni tanto qualcuna nella risalita si stacca dal gruppo e va a costruire altre forme un po’ più in là. Sono onde nere, imprevedibili, linee curve, cambi di altitudine veloci.
“Secondo te cosa fanno? Perché si muovono così?”
“Secondo me giocano!”.

Mentre scrivo, col mio fido pastis nel bicchiere, sento l’arrivo di una scia ventosa: un accrocchio meticcio di tre ragazzini sopra un’unica bici, uno rannicchiato in mezzo, tra gli altri due.
Inutile chiedersi come fanno a non cadere o dove stanno andando.
Riempiono la scena, sfrecciano nel vicolo cantando a squarciagola “I feel good, na na na na na na na….”.
Giocano.


Libri letti da quando sono a sud…
“Vento forte tra Macedonia e Candela, esercizi di paesologia” di Franco Arminio (fino a pag.76).

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