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giovedì 22 luglio 2010

Approdo a sud_due. Oltre mmmm....

Trovare bar e luoghi in cui rifugiarmi va di pari passo con la voglia di trovarne altri in cui perdermi e confondermi.
Imbocco il corso principale alla ricerca di un’ispirazione. Mi sforzo di adottare uno sguardo pulito, come se fosse la prima volta.
Non è facile in questa strada sfrondare lo sfoggio di apparenze, per trovare un posto accogliente, un invito alla sosta.
Non amo gli arredamenti moderni, impersonali, l’alluminio dei tavoli, i menù per turisti, proseguo.
C’è un’aria perfetta: fresca, pulita, l’atmosfera da temporale sventato.
La luce è quella gialla del quasi tramonto, con nuvole grigie rabbonite dal sole.
Supero il corridoio che conduce alla piazza della cattedrale e decido, perché no, di fermarmi al bar con vista duomo.
Perché non strappare ai turisti il dominio su uno degli scorci più belli della città?
Il bar mi piace, è elegante, ma non spocchioso, ci sono poche persone, scelgo il tavolo a ridosso dell’uscita, a un passo dal selciato della piazza.
Ordino una sambuca liscia, che probabilmente pagherò cara, ma decido di non pensarci. La cordialità, da esercente di lunga data, del proprietario mi convince.
Questo è il mio terzo avvicinamento, il terzo indizio alla cattedrale.
Il primo è stato letterario.
Ho visto la prima volta il Duomo di Lecce nella prosa poetica di Antonio Errico che lo descrive, leggendo mi sono accorta di non esserci mai andata.
Forse per desiderio di cercare sempre l’alternativa alle strade consumate dalle suole impazzite dei turisti, per protesta a quella smania di monumenti di cui sono vittima gli avventori fugaci.
In effetti gli altri clienti sono chiaramente turisti, lingue e dialetti diversi, discorsi milanesi sul ristorante da prenotare per cena, desiderio di assaggiare il vino di qua, quello che le guide considerano ‘tipico’ e dunque imperdibile.
Anch’io sono straniera, ma la sambuca che ho nel bicchiere dice che qua ho deciso di abitarci, di viverci i miei soliti rituali: sostanza ‘aniciosa’ nel bicchiere, penna in mano e quaderno su un tavolo di legno scuro.
A scardinare subito l’immagine stereotipata degli avventori del locale entrano due barboni dall’aria alpina: faccia bruciata dalla strada, barba lunga, cappello di feltro, stanno spesso seduti nel corso. Sembra che anche per loro faccia parte di un rituale quotidiano entrare qui, andare in bagno, salutare e poi uscire al saluto del proprietario.
Il bar per me rappresenta il limitare, la soglia porosa, il guardare fuori stando dentro.
In questa piazza bisogna entrarci, non si presenta subito.
Ti stuzzica il suo campanile praticamente da ogni punto della città, ma per accedervi, per sentirsi piccoli guardando in su c’è un sentiero da fare, un attraversamento prima che la vista si schiuda e gli occhi danzino tutto intorno, su e giù tra i tanti pieni della facciata e qualche vuoto da rincorrere per lasciar riposare ogni tanto le pupille.
Il lato di fronte alla facciata del duomo non è da meno: i terrazzi che si intravedono sopra i tetti, l’accrocchio di pareti non perfette di case adiacenti, forse abitate, forse no.
A stare in questo tavolo mi accorgo che la piazza non è come la immaginavo.
La rincorsa dei vacanzieri all’angolo perfetto, alla luce giusta per la foto ricordo non interrompe il vociare dei ragazzini in bicicletta che scorrazzano da un lato all’altro, gridandosi codici strani. Sembra ci sia del fumo provenire dal corso che provoca il loro eccitamento, addirittura chiamano uno col telefonino per capire cosa è successo, sono gli autentici vigilantes di questo spazio pubblico, gli unici di cui mi fiderei.
Un altro gruppetto di bambini più piccoli dai tratti orientali prende a calci un pallone e una coppietta staziona sulle scale a lato dell’entrata del duomo, bel luogo per scambiarsi effusioni, penso, quasi coraggioso direi.
C’è anche un ragazzo seduto su una delle rientranze rubate al muro. Non fa nulla, guarda avanti, ha i capelli lunghi e l’aria assente. Penso di averlo già visto, forse davanti a Santa Croce.
Non guarda il duomo, guarda semplicemente avanti o forse pensa con gli occhi, è la figura dell’anti-turista: senza fretta, un po’ perso, accovacciato, defilato, senza nulla in mano.
Ha l’aria di stare lì da molto e di non sentire alcuna necessità di andarsene.
Immagine specchiata della pietra scolpita. Statua pensosa.
“Qui la pietra del barocco è come una lingua madre, un codice genetico, un canto popolare conosciuto da sempre. E’ la sintesi essenziale di una città” (A.Errico).



Libri letti da quando sono a sud…
Viaggio a Finibusterrae, il Salento fra passioni e confini, di Antonio Errico

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