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martedì 27 settembre 2011

Donne a sud 2/ A Soleto con Joyce Lussu




Arrivo a Soleto a metà pomeriggio con il treno delle Fse e con Joyce Lussu dentro alla borsa.
Accanto a me una signorina con gli abiti e i capelli da signora, tailleur nero con camicia bianca e gilet scuro. Ricama intenta con filo bianco un complicato disegno. Muove il filo con il dito attorno all'uncinetto, non posso non guardarla. Lei sorride.
Una premonizione.

A Soleto le donne ricamano, lo fanno dietro alle finestre o fuori dalla porta di casa, in strada.
Hanno grossi rocchetti di filo ai piedi. Una signora stava seduta sul marciapiede con le spalle alla strada, di fronte un leggìo con lo schema, accanto due signore più anziane e una bimba.
Sono le uniche che mi hanno salutato, quando la ricamatrice si è girata aveva occhi enormi e azzurro cielo, su una carnagione scura.

La sua scienza divinatrice non aveva nulla di magico e di misterioso. Era la preveggenza dell’esperienza e del buon senso, basata su una conoscenza totale della sua comunità, individuo per individuo, e su un’attentissima capacità di osservazione. Percepiva tutti i linguaggi che non sono solo parole, ma gesti, atteggiamenti, espressioni, tensioni, sguardi, movimenti minimi delle labbra, delle mani, di tutto il corpo, che rivelano l’onda delle emozioni e dei pensieri.

Un altra se ne stava vestita di nero ai bordi di una delle strade principali del paese, spalle contromano e le dita a disegnare giri di filo nell'aria, da lontano il filo era invisibile, lo si poteva solo immaginare e lei aveva polsi da flamenco.
Gli stessi della ragazzina che ho visto poco dopo, camminava in strada a braccia larghe e distese e le mani muovevano nell'aria tessiture non volute.

In via Matteo Tafuri, la via del guaritore, mago, stregone, santo, demonio a seconda degli occhi che lo raccontano, due donne, forse madre e figlia, siedono silenziose nel gradino di casa, nessuna loro parola taglia l'aria, la strada è solo vento leggero.

Lei l'ho vista solo per un attimo, stava dando l'acqua alle piante dal balcone, ci siamo fissate, era circondata da vasi di plastica per piante di ogni colore.

Accanto al circolo cittadino che sembra deserto due donne se ne stanno sedute fuori, arrivano quelle che escono dalla parrucchiera più avanti. Sbircio dentro e il negozio non è il negozio, ma una casa diventata parrucchierìa.

A Soleto ci sono molte porte piccole e uno specchio rotto sotto a una panchina del parco.

Accanto alla Chiesa di San Nicola c'è una piccola corte fiabesca, non c'è traccia di vita, solo una porticina piccola coperta da rami, sopra un archetto di cielo, di fronte un' icona ortodossa, che sembra stata messa ieri.

Nella facciata del Convento dei Frati Minori due facce da diavoli con la lingua di fuori e gli occhi spiritati se ne stanno impietrite e simmetriche.

Attraverso Porta San Vito e arrivo all'unica piazzetta popolata. Lì c'è il Bar Sport. Sfido il muro a secco dei secchi vecchini seduti di fronte e chiedo una dreher piccola. La pago ottanta centesimi. “La porta via no signorina?” e io “No, no la apra pure, la bevo qua”, “Ah.....se vuole si può accomodare dentro che non c'è nessuno”.
Faccio no con la testa, sorrido, mi siedo sui gradini di fronte.
Bevo e fumo, una signora con veste azzurrina mi guarda passando perplessa.

Vicino al Bar Sport c'è un negozio:” Onoranze funebri, piante, fiori, Interflora”, dentro pochi vasi di plastica bianca alti, tipici dei cimiteri, con rari fiori e sul tavolo una montagna di panni bianchi e un ferro da stiro.

Al Bar Sport tutte le donne passano e salutano solo una si ferma, l'avevo già vista prima seduta con l'amica fuori casa. Aveva appena fermato un' altra donna di mezza età con una Ka rossa come gli occhiali, urlandole “Beddazza mia!” e correndo ad abbracciarla.
La signora è grassottella, non giovane, avvolta da un vestito bianco con un nastro rosso sotto il seno, ha un occhio a est e l'altro a ovest, un sorriso decisamente a sud.

...nelle sue vesti festose, col seno prospero e i gesti vivaci delle braccia rotonde sotto le larghe maniche rimboccate fino al gomito, con gli occhi ridenti e la voce squillante e la schietta risata che scopriva i denti forti, era l’immagine stessa di una vitalità prorompente. “E’ tutta, lei,” fu il mio primo pensiero. “E’ una donna intera.”

Se a Galatina ci sono cani sdraiati ad ogni angolo persino cani banchieri, che sonnecchiano tra bancomat e clienti, a Soleto c'è una gatta nera spaparanzata a pelle di leopardo tra sottovasi e bacinelle azzurre.

Nell'ora del tramonto che a settembre è già notte, la villa-parco è piena, piena di anziani e papà maschi seduti nelle panchine a chiacchierare o in bicicletta.
Due eccezioni: una nonna che porta a spasso la nipote e due ragazze adolescenti con le bici di fronte sedute ad una panchina.
Le rivedrò poi in stazione a cercare una panchina al buio, per continuare a raccontarsi, indisturbate.

(Quell'immagine energica e umana) la vidi riemergere anni più tardi, nelle ragazze dai capelli al vento e dai golfini rossi che marciavano su Pratobello per contendere a militari e militaristi i loro pascoli e le loro querce millenarie.

In uno dei bar accanto al parco di quelli con il semicerchio di uomini seduti di fronte, quando già era buio un signore mi ha offerto di sedermi lì fuori.
La signora del bar è seduta con noi, di fronte a lei sta una ragazza più giovane che indossa con spavalderia molta ciccia e un seno prosperoso.
La luce è calata, possiamo parlare del bere, del perché siamo ancora fuori. Un uomo anziano dolcissimo con un problema alla voce racconta che quando è andato ad operarsi a Milano si è preoccupato di sapere non tanto se la voce sarebbe tornata, quanto se avesse potuto continuare a bere vino.
Ridono tutti, io sorrido. Nessuno mi parla, ma uno di loro ogni tanto traduce dal dialetto all'italiano quello che dicono gli altri. Li saluto e mi dirigo alla stazione per il treno delle otto.

In Africa, giravo alla ricerca degli ultimi griots, gli storici-poeti itineranti della gente bantù, che di villaggio in villaggio raccontano, in un lungo poema ritmato, le vicende degli antenati, l’epopea gioiosa del quotidiano, l’incalzare delle sciagure. Andavano, con questa nostra parola sulle labbra, perché anche in bantù la radice del verbo andare è “anda” o “enda” (chi sa, se in tempi molto antichi, non abbiamo parlato la stessa lingua?).

A Soleto le donne ricamano, le ragazze cercano il buio e ogni tanto, solo ogni tanto, donne e uomini tessono storie nell'ombra.



[I brani in corsivo sono tratti da “Il libro delle streghe. Dodici racconti di donne straordinarie, maghe, streghe e sibille” di Joyce Lussu, a cura di Chiara Cretella, ed. Gwinplaine]





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