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lunedì 16 luglio 2012

Il dito di Lola è JANUB



Lola, foto di JANUB

Sono quasi le sei sotto un cielo senza ombre, la piazza è ancora vuota. Siamo al margine del quartiere San Pio, quasi a ridosso della ferrovia, nella piazza che l’associazione Janub, di Claudia Mollese e Afro Carpentieri, sta ri-progettando e ri-costruendo ormai da mesi per restituirla agli abitanti.
E’ da un po’ che non venivo a trovarla la piazza, che i luoghi bisognerebbe andarli a trovare come si fa con la nonna o con l’amico che sta sempre chiuso in casa. E’ spuntato nella piazza un albero in ferro battuto, con specchi colorati come frutti luminosi e una foglia a fare da tettoia al tavolo e poi il colore dei mosaici che sta entrando sempre di più nel grigio dei mattoni e del cemento.
L’albero appare come un segno a carboncino, accanto all’enorme palma che svetta lì accanto, lei risente del vento, lui invece disegna riflessi quasi impercettibili con gli specchi.
Quell’albero pur essendo non vero ha un riserbo che la palma non ha, un passo delicato, una postura  timida. Questa piazza ha in sé un passo lento, piccolo, aperto agli imprevisti del viaggio, in questo si allontana da tutto ciò che viene abitualmente costruito o ristrutturato in città.
Lo vedi subito: non ti salta agli occhi per sorprenderti, vuole che ti avvicini, che la guardi, che ti chiedi, che ti ci siedi dentro.
La piazza è bella, di una bellezza senza spocchia: le linee dei mosaici le decidono insieme Afro, l’architetto, Claudia, l’antropologa e Adriano e Carlo che da giugno sono i nuovi capi cantiere, ma anche la figlia giovane di Carlo che sta aiutando e chiunque si trovi a passare. Adriano e Carlo vivono ai lati opposti della piazza, entrambi si affacciano lì. Adriano insegna fisica all’università, Carlo è piastrellista, marmista, uomo di mani. Quando a giugno la situazione era stanca, poco interesse da parte del comune, calo delle energie, pochi contributi manuali, hanno convocato un’assemblea di abitanti in cui è stata spiegata la situazione. Da allora hanno deciso in molti di venire il pomeriggio e lavorare per finire la piazza.
Un simile processo in un’altra città o in un altro paese avrebbe già un equipe di studiosi universitari pronti a studiarla, ma qua siamo ai margini di tutto, nel finale della cancrena, nel regno dell’estetizzazione barocca, che il vero non abbiamo occhi per vederlo.
Mi domando perché una città non sa cogliere i gesti in dettaglio. Può davvero il governo di una città ignorare che Lola con un ditino piccolo, alle otto di sera, toglie premurosa e precisa la calce che fuoriesce da una pietruzza di mosaico?
Esiste una vera politica della bellezza?
Che solo per quel gesto minimo si dovrebbe immaginare una città nuova, un modo nuovo di fare, di agire, di stare.
Il dito di Lola è Janub. Un progetto che è passato dalle maglie strette dell’istituzione per provare, collaborando, a riportarci un valore, un fiato di progettazione vissuta, di costruzione sensata e desiderata, di dismissione di ruoli e gerarchie.
L”amore per i luoghi non entra nelle stanze dei poteri. Il localismo può essere una coperta pesante che invece di lasciare aperte i pertugi, li sfrutta per imbellettarsi e aumentare il proprio prestigio.
I gesti minimi quasi mai entrano nelle logiche urbane, eppure l’abitare nasce da gesti minimi.
Come quando entri in una casa nuova e appendi un poster di Dalì o o come quando finisce un amore e ti metti a smontare mobili, a cambiare le stanze.
L’urbanistica relazionale non dovrebbe tendere a questo? Cogliere le pratiche vitali dell’abitare per farne occasione di spazio pubblico realmente vissuto. Che una piazza se non ci sono le persone dentro, che si siedono si scambiano parole, sguardi che senso ha?
Che un turista ci può passare, dire che è bella e fare una foto, ma se nessuno la abita cosa resta?
In quella piazza di San Pio la città respira e pochi lo sanno, pochi sono andati a vedere che vento tirava, a lasciarsi sorprendere, osservare un pomeriggio di lavoro per comprendere, per capire.
Un’amministrazione normale o un qualunque movimento alternativo di città dovrebbe passare da qua, dismettere la giacca e la camicia di circostanza e sedersi. Stare, aspettare, ascoltare, sospendere il giudizio, imparare. Nessuna estetizzazione solo stare e farsi dire.
La piazza non è ancora finita e già c’è chi ci sta seduto: Mattia, un ragazzo che ha lavorato qua molti mesi, il cane, gli amici e Lele The Artist, la sola firma che compare in una panchina, che il suo amore per i colori delle reclàme dell’Ipercoop l’ha trasformato in pezzi colorati da accostare uno accanto all’altro.
Questa città che insegue titoli inneggianti alla cultura, al turismo tutto l’anno, ai giovani, si perde Lele, Mattia, Carlo, Adriano, Lola, gli abitatori veri, gli artisti del quotidiano, quelli che non hanno titoli, che vivono, si affacciano, giocano sulle scale, bevono birra sulle panchine e quando c’è bisogno si siedono in terra sotto la calura di luglio e si sporcano le mani di calce, trasportano bidoni, per dare bellezza a un pezzo del loro quartiere.
In questo la città non riesce a specchiarsi, non si guarda, non sa riconoscersi.
Non c’è tregua per chi impiega le mani con negli occhi un sogno, una visione. Non abbiamo parole per stare nella porosità dei saperi, strategie politiche per dare forma alla bellezza. Ognuno osserva dalla sua categoria claustrofobica senza mettere un dito per togliere la calce in eccesso e lasciare pulita la linea ondulata.
 (Pubblicato su Il paese nuovo, l'11 luglio 2012)

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