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giovedì 21 luglio 2011

TRA-MONDI, NOTTURNI E PANCHINE

E' tramonto sullo Scipione, l'attimo in cui il sole arrossato e basso convive con la luna alta e bianca.
E' la soglia del giorno che non è più giorno,
l'attimo che sospende e tiene insieme gli opposti.
E' il momento di stare dentro e fuori.
Far dialogare il trapano con il mantra gutturale delle tortore, quello in cui far scorrere tubi grigi pensando alle serrande semichiuse delle case di fronte.
E' il momento in cui le strutture reggono perché la signora e il marito portano a spasso il cane insieme e ogni tanto si danno il cambio.
L'uomo del giardino accanto sta chino in terra, osserva le piante attentamente poi sceglie. Ne toglie alcune per far spazio ad altre. Infine le bagna per rilassarle dal sole del giorno.
E' tramonto sullo Scipione, l'attimo preciso in cui una donna araba vestita completamente di nero convive con la tortora bianca che sta attraversando lenta la stessa strada.

Anima di soglie da percorrere.

Colano sagome di umido nero dalle pareti dello Scipione.
E' notte, le forze calano e qualcosa si disvela. Interstizi, crepe, segni del tempo.
Si può trovare la forma nascosta delle macchie sul muro,
progettare e costruire imitando la porosità della pietra dura, ma attraversabile?

Lecce è una città che concede poche soste.
La scarsità di panchine rivela un'insofferenza alla sosta, soprattutto in certe zone.
Ci si può sedere in Piazza Sant'Oronzo o alla Villa, proibito farlo alle Giravolte,
dove al massimo si può trovare riparo sui gradini di qualche casa.
Esistono poi panchine da consumare, dove se paghi ti siedi e ti godi la visione della città che si muove.
Arrivando a piedi dalla Villa allo Scipione sono possibili varie soste, attimi di vuoto dal pieno delle macchine.
Girando a destra si arriva a Piazza Verdi, un angolo di ombra fresca, una pianta triangolare circondata da alberi e panchine.
Uomini anziani si incontrano lì, stazionano ore a prendere il fresco, si lamentano, si raccontano.
Un chiosco del bar verdi che apre di sera ha corroso lo spazio, che però resiste, caparbio, a difendere la gratuità dello stare.
C'è persino una sagoma di panchina senza seduta, ancoraggio invisibile, ristoro immaginario.
Tornando sulla via dello Scipione di fronte alla caserma c'è una piccola piazza dove sta di casa uno dei tanti Padre Pio della città.
Ha la bocca spalancata, quasi a sbadiglio è circondato da fiori e piante e un piccolo recinto.
Attorno a lui comode panchine di legno che acquistano ombra nel tardo pomeriggio.
Oasi per le orecchie, perché il rumore delle cicale vince quello di moto e macchine.
Padre Pio sta spesso solo, forse è per quello che ha una faccia strana.
Non sempre è facile mettersi in panchina, richiede la capacità di una presenza, un esporsi allo sguardo altrui, il rischio dell'incontro.
Osservare le panchine significa osservare i resti dell'abitare di una città.
Quello che rimane dello stare senza motivazioni, solo per il gusto di esserci, di uscire dal proprio spazio privato.
Nelle panchine del giardino attorno all'Ammirato sostano presenze colorate e invisibili.
Storie d'amore tra ragazzini consumatisi chissà quando che prendono la forma di dichiarazioni di odio e passione.
Atti di rabbia di adolescenti contro i detentori del potere. Le immagino scritte notturne o rubate a qualche assenza clandestina da scuola.
Un abitare non visibile che si può soltanto immaginare.
Diverso da quello del piazzale di cemento sotto ai palazzoni bianchi.
Lì si rappresenta in maniera tangibile il valore della soglia.
Un gruppo di persone e qualche ragazzino sostano fuori dal portone in quella linea sottile tra casa e fuori.
E' un esporsi protetto dall'inferriata arrugginita, un intramondo.
L'abitare senza pericoli, stare fuori, ma protetti.
Mentre fuori gli abitanti del quartiere si siedono oppure no,
gli architetti in trasformazione lavorano alla costruzione di una panchina anomala.
Un crogiolo di tubi che vadano ad abitare una casa pubblica.
Un ossimoro per la possibilità di abitare una casa come se fosse pubblica
e uno spazio culturale come se fosse casa.
Per ora c'è Davide, il bimbo del quartiere che ha adottato gli architetti.
E' il figlio dei proprietari della ferramenta di fronte.
Ci ha raccontato che suo nonno abitava qua e si occupava del giardino.
Ogni tanto viene, osserva costruisce farfalle con fili e cannucce rimasti di scarto
e oggi s'è seduto ai piedi  di questa struttura ancora informe.
Dice che sembra un alieno e lui ci si è messo dentro, come se stesse in una piccola piscina.
Ha le gambe incrociate e sorride.
Primo abitante dell'aliena panchina.


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